A che concetto di “salute” si riferiscono i Governi e l’ONU stessa? Ed in base a quali riformulazioni politiche ne stanno trattando?
<<<<<<<<<<<<<<<<<< PREMESSA : INDIVIDUI MALATI, O SOCIETA’ DEL MALESSERE ? <<<<<<<<<<<<<<<<<<
Per prima cosa, non dimentichiamo che il prossimo indecente meeting globale è solo l’ultimo di una lunga serie di incontri che puntano ad una ristrutturazione economico-politica per cui sono state valorizzate le solite ambizioni di stampo aziendalistico secondo il modello americano, ormai approdato inesorabilmente anche in ambito di cura. Si va quindi dal disincentivo pubblico nei confronti della formazione di personale sanitario (ed assistenziale in genere) fino alla sempre minor copertura assicurativa di base e ad una ingiustificata eliminazione progressiva delle possibilità di degenza ospedaliera. Nel dettaglio, la contraddizione rispetto alla percezione comune di poter disporre, in Italia, di una serie di garanzie medicali, si é resa evidente nel periodo pandemico occorso tra il 2020 al 2022, durante il quale sembrava passare in ultimo piano di come nell’arco di 40 anni siano stati tagliati precisamente 32.508 posti letto ospedalieri a fronte di un invecchiamento progressivo della popolazione. Il numero dei posti letto in geriatria, appena 3.560, non è sufficiente a reggere 1,3 milioni di ricoveri all’anno (con una degenza media di 9 giorni), senza contare i tanti malati complessi di tarda età. Lo smantellamento delle disponiblità ospedaliere (e del SSN in genere) è stato lungo i decenni logorante, ma talmente silenzioso che ha cominciato a preoccupare davvero soltanto quando ci sarebbe stato semmai bisogno di dedicarsi a creare innumerevoli ricoveri di fortuna (e ciò persino anticipatamente, presagendo lo scenario di un salto interspecie di qualche patogeno quale avvenimento costante negli allevamenti intensivi). Invece, che negli ultimi 10 anni siano state chiuse 95 strutture sanitarie di base, le quali corrispondono ad una sottrazione del 9% dal numero totale, oltre che a non corrispondere affatto a quello che è il bisogno, esponenzialmente crescente come accennato, rispetto ai ricoveri dellx anzianx, è dipeso in larga parte da rapporti di corruzione mafiosa in vare aree del Paese.
Per quanto le statistiche siano definite in modo relativo da chi raccoglie e manipola dati, la percentuale di ospedali persi può essere confrontata nondimeno con il flusso di origine migrante, che per quanto tendenzialmente vive pù facilmente situazioni di precarietà non si ferma certo allx primx figlix, di solito: se solo si fosse voluta mantenere in qualche modo costante la disponibilità media a persona precedentemente prevista per i ricoveri, la somma degli ambulatori ormai sospesi sarebbe stata piuttosto da aggiungere. La soluzione in questi casi consiste nel negare penalmente l’accesso ai Servizi alle persone prive dei documenti di cittadinanza. Un discrimine analogo si è riprodotto per la condizione di medicx e infermierx di trovarsi a dover scegliere letteralmente chi tenere in vita e drammaticamente chi no proprio durante uno stato di emergenza caraterizzato da un lato dalla strumentalizzazione della propaganda razziale e nazionalistica, dall’altro da protocolli d’intervento che portano veramente qualunque settore a divenire complice di abusi sistemici. Ciò quindi non solo nell’ambito strettamente repressivo, bensì quasi come si trattasse di una necessità imprescindibile alla realizzazione di una carriera professionale.
oltre ad assumere la responsabilit delle problematiche che ci toccano in maniera autogestionaria, xxxx Nonostante ci sia ancora chi non fnge di niente (e contrasta le politiche, come Microcliniche, Ambulatori Medici Popolari e in genere i Sindacati di Base. L’USI stessa è stata tempestiva nel chiamare allo sciopero il personale sanitario già allo scoppio della pandemia grazie alla consapevolezza che tutta una massa di operatori e operatrici licenziatxsi,
“Coloro che condannano la violenza di chi manifesta sicuramente sono dei privilegiati, che credono fermamente nei vantaggi della democrazia liberale, dove solo chi possiede posizione e un minimo potere economico può recepire sicurezza e benessere da un Stato/governo di cui è l’espressione ( qualsiasi governo). Sono persone che grazie alla loro posizione non devono aver “combattuto” neanche un secondo nella loro vita. Le paure del cittadino medio vengono curate attraverso l’ uso della repressione da parte della forza armata del governo. (…)”
[da riflessioni di una compagna anarchica su chi prova repulsione della violenza e della rabbia nei momenti di protesta]
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Sappiamo davvero distinguere un bisogno individuale e/o collettivo rispetto a quelli costruiti sulle nostre teste e cui spesso si viene assuefatti attraverso la leva su un generico senso di insicurezza?
Come viene strumentalizzata quest’ultima rispetto al sistema ospedaliero ed al welfare in genere?
Dunque, si può stare davvero bene entro questi termini?
E come si può esercitare una professione di cura in maniera adeguata con simili premesse?
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motivazione, lo ha sentito urlare e chiedere l’intervento di un dottore senza mai ricevere una risposta3. A luglio del 2019, nella stessa sezione dell’Ospedaletto, era morto in isolamento, abbandonato a se stesso, senza cure adeguate anche Faisal Hossain.
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“La Tecnica, pretende di essere un valore assoluto, al di fuori di ogni partita doppia.
Ebbene, mai il ciarlatanismo, il corbellamento del proprio simile, il gabellamento più sfrontato delle menzogne,
hanno attinto così alto livello, come in questa epoca in cui siamo “scientificamente” governati. […]
Non vi è potente fregnaccia che la tecnica moderna non sia lì pronta ad avvallare, e rivestire di plastiche verginali,
quando ciò risponde alla pressione irresistibile del capitale ed ai suoi sinistri appetiti.”
[ Amedeo Bordiga, da Politica e “costruzione” ]
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UNA QUESTIONE DI METODO
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Non si sta proponendo, come fosse una questione di mera coalizione pseudo-oppositiva, di doversi limitare alla polemica allarmistica; tantomeno non si vuole suggerire di aggrapparsi al pregiudizio ideologico, magari finendo a conclusioni affrettate dietro cui si nascondono soltanto ennesime strumentalizzazioni dell’idea tutta totalitaria per cui la popolazione vada trattata come un gregge in quanto inevitabilmente ignorante. Non si tratta di doverci indottrinare, e non è un mero appiglio teoretico che si prova a reclamare. Ciò che si cerca di non far morire del tutto in quanto unico vero orientamento possibile è semmai il carattere delle nostre interazioni umane, la loro vitalità stessa, il tenersi in contatto, il non abbandonarsi a chi ci trascina solo per usarci. E non invece un trascinare a sé per usare! Quando non si può essere schiettx, significa che non si è liberx di esprimersi, ed alla lunga nemmeno di provare emozioni. Perciò l’appello che si può lanciare è di non demordere, non accontentarsi ma anche sforzarsi / darsi forza. Capire cosa vogliamo. Porsi vicendevolmente interrogativi su cosa quotidianamente possiamo anticipare ed evitare rispetto a concertazioni governative che avranno conseguenze su intere generazioni a venire. Per non arrivare impreparatx come è già avvenuto durante la pandemia, ma anche a prescindere da qualsiasi incombenza nefasta. Forse proprio perché questo tipo di vissuto, più caotico ma anche più ricco di scambio, è già un ingrediente che ci sembra fondamentale, di quelli che ci fanno sentire un po’ meglio, genuino perché non ha bisogno di troppe indicazioni, anzi lievita soprattutto spontaneamente. Perché in linea di massima, nel dichiararsi contro ogni autorità non è affatto un programma a rendere quale sia il nostro stato di cura reciproca, ma la capacità tutta da allenare di non finire riprodurre forme dolorose di isolamento, darsi coraggio e ritrovare motivazioni al non rinunciare, magari proprio ripensando il nostro modo di stare insieme.. dietro a questi schermi ce lo chiediamo spesso, e di fronte alla repressione, come possa continuare ad essere possibile senza doversi nascondere.
Apprendere a discutere di ciò che accade nei nostri ambienti di lavoro così come delle esperienze da “utenza” è ciò che ci auspichiamo affinché si possano poi creare gruppi mutualistici e alternative valide a ciò che il sistema capitalistico nonostante tutte le sue promesse sta dimostrando di non poter offrire. Il benessere psicofisico è qualcosa che spesso diamo per assodato, vista la varietà di proposte di cui disponiamo oggi. Eppure l’insofferenza verso questo esubero, il costante senso di inadeguatezza, l’inquietudine per il disorientamento che produce, finanche il rigetto di moltissimx nei confronti della sensazione di doversi omologare a questa corsa al “di più”, sono solo alcuni degli effetti collaterali di un procedere consumistico che fallisce in fondo le sue promesse. Mentre in certe parti del globo vengono bombardatx interi territori attraverso armi fabbricate nei nostri paesi, qui si bombardano costantemente gli animali d’allevamento con antibiotici e farmaci sperimentali per trattenere ennesime fuoriuscite pandemiche, e noi stessx per sostenere stili di vita alientanti ci lasciamo bombardare con offerte commerciali d’ogni tipo per continuare a giustificare le conseguenze nefaste della nostra organizzazione sociale, fino a vendere non solo sostanze farmacologiche ma le stesse apparecchiature tecnologiche come fossero panacea, ritrovati miracolosi, seppur sia assodato che non fanno che aumentare scompensi relazionali e che sostenere la loro produzione secondo le attuali forme imprenditoriali comporti avvallare l’avanzamento di catastrofi ambientali e dello sfruttamento, per altro ancora razzializzato. Tutte queste false soluzioni, apparentemente disgiunte tra loro, dipendono in ultima analisi da calcoli d’investimento che di fatto decretano il destino di intere popolazioni. Pensando a tutte queste compromissioni, di quali e quante illusioni e distrazioni cui siamo abituatx dobbiamo arrivare a poterci liberare per riuscire a rivolgerci la domanda “di cosa ho davvero bisogno?”
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Per fare un parallelo di metodo, un passaggio dello sviluppo scientifico che ha permesso di salvare vite anziché di impadronirsene è proprio l’osservazione eziologica, sulle cause. E non possiamo non ricordare che le stesse lotte emancipative tentino di base di svelare e combattere proprio le cause delle ingiustizie (ovviamente con tutte le diffoltà dirette in cui si imbattono), caso per caso. La pretesa di universalità o, all’inverso, l’attenzione al più piccolo particolare, sono comunque due poli complementari: portano ognunx in sé possibilità di riscatto ma anche tante contraddizioni, oltre al contraddirsi tra loro quando cadono nella pretesa di unicità. L’equilibro tra di essi è spesso precario, ma ricercarlo anziché eliminare ciò che contraddice un assunto non farebbe che aumentare il grado di esperienza.. La ricerca di un sensato (o anche, sano) equilibrio tra le contraddizioni io-mondo e soggetto-oggetto comporta proprio evitare che uno dei due poli schiacchi od elimini la portata dell’altro, non solo per mera funzione di rispecchiamento nell’altro-da-sé, ma per tutto ciò da cui l’altro-da-sé deriva, e che nel rapporto con esso ci trova coinvolti a scegliere di considerare o meno. Questo si ricollega al paragrafo iniziale rispetto alla non-neutralità di ogni posizione: persino chi si ritiene ormai illusoriamente lontano da un certo ordinamento sociale può subirne comunque alcuni effetti, ma anche agirvi, allo stesso modo dei vertici che dirottano le masse, ma nondimeno è possibile il contrario! Ciò significa che non si può né obiettivamente né soggettivamente rinunciare ad un movimento dialettico tra questi sguardi, il generico ed il singolare. Il che può essere spiegato o contestato da varie filosofie e civiltà, le quali spesso hanno assunto declinazioni ragionate a riguardo ma che finivano per amplificarne l’una o l’altra polarità, mentre una focalizzazione biunivoca è forse proprio ciò che ci permette di reinventarci e non doverci per forza accontentare degli schemi esistenziali fissi che si viene ad ereditare. Un segnale che qualcosa vada cambiato è proprio quando si prova malessere: proprio questo ci spinge, per andare incontro invece a forme più autonome dello stare bene, che studino le maniere di autovalutarsi ed autodeterminarsi, o magari non studiano proprio un bel niente nel senso classico e formale eppure come metodo contemplano la trasmissione non gerarchica di conoscenze, condividendo i propri rimedi.. mica aspettando gli standard globalisti (manco per farsi un’idea, figuriamoci nella pratica)!
Quindi, cercando in prospettiva del G7 di capire cosa attende le collettività (perché di questo si tratta, purtroppo, mica di una conferenza su come sconfiggere il cancro..), se riscontrassimo, come secondo la logica prima accennata, che molte cause del nostro malessere sono proprio là fuori, mentre ciò che proviamo “internamente” si rivelassero solo effetti, ripercussioni sulla nostra stessa salute, e che questi finiscono per accumularsi più che altro per il modo in cui non riusciamo concretamente ad affrontare il nostro contesto esperienziale, si ritiene davvero che le nostre sensazioni siano da eludere banalmente aggiungendo della serotonina o correndo a farci diagnosticare qualche deficit? Non si sta qui negando che qualunque intervento ognunx veda appropriato al proprio intimo percorso possa avere un risultato obiettivo rispetto a ciò che si soffre. Si sta però ponendo la questione sulle misure massive, disposizioni che predeterminano i percorsi personali, anche solo come elemento culturalmente normalizzato, senza che vi sia una chiara costrizione in atto, ma che influisce sulle nostre possibilità decisionali.
Le contro-culture, ciò che difendiamo, non mancano di valorizzare l’uso di sostanze psicotrope, calmanti, acceleranti, spazio-temporalmente dissociative, e via libera sperimentando. Qui l’obiettivo non è certo contestare un determinato uso, anche qualora fosse placebo, e nemmeno il senso generale di una prescrizione medica; soprattutto, non si vuole ferire chi tenta così di non farsi abbattere da eventuali patologie. Ma si vuole fermamente capire se possiamo darci un qualche sostegno per prevenirle, cominciando a non farci portatori delle loro stesse cause, e ciò sempre seguendo la logica di molte lotte emancipative, tante delle quali hanno aperto spiragli di libertà alle successive generazioni. Come si potrebbe superare la dimensione placebo senza concepire momenti di autocricrica? Eluderla comporta per prima cosa una relazione superficiale con altre persone ed il mondo stesso. Se guardiamo alle prospettive più catastrofiche sistematicamente proposteci, tanto l’autocritica che la critica vengono concepite come piuttosto inconcepibili da farsi pubblicamente, se non nell’assetto dei talk show.. ma riguardo alle possibilità di dibattito, più descrittivo che gli applasi a pagamento rimane semmai l’intervento della celere nelle strade, tant’è che un assetto autoritario è riconoscibile proprio laddove la variiabile critica venga meno. Magari anche lentamente, ma troppo spesso fino alla totale eliminazione di un contraddittorio, spesso in nome di qualche sicurezza fantomaticamente raggiunta. E ciò si rifletta tenendo sempre conto che nessunx è del tuttx immune, come nessunx è davvero innocente.
Non sarà che al solito dovremmo allora concentrarci sul fatto che tra potenze occidentali si senta ancora legittimo coordinarsi su come rendere le possibilità di diagnosi e cura un ulteriore strumento di ricatto sociale, persino senza che ciò desti troppe preoccupazioni? Non perché dovremmo avere contributi scientifici da portare o contrastare laddove non si conoscono nemmeno i brevetti, ma banalmente perché i piani degli amministratori ed i loro indirizzi collaborativi sono purtroppo sempre molto più lineari e già esplicitamente tracciati (si vedano le proposte del PNRR) di quello che giocano a mostrare attraverso le loro liste di rappresentanza. Non si sta proponendo, come fosse una questione di mera coalizione pseudo-oppositiva, di doversi limitare ad allarmarsi e non si suggerisce tantomeno di aggrapparsi al pregiudizio ideologico, magari finendo a conclusioni affrettate dietro cui si nascondono soltanto ennesime strumentalizzazioni popolari. Non è questo che si prova a reclamare.
Ciò che si cerca di non far morire del tutto è semmai il tenersi in contatto, non abbandonarsi a chi ci trascina solo per usarci. E non un trascinare per usare! Quando non si può essere schiettx, significa che non si è liberx di esprimersi, ed alla lunga nemmeno di provare emozioni. Perciò l’appello che si può lanciare è di non demordere, non accontentarsi ma anche sforzarsi / darsi forza.
Capire cosa vogliamo. Porsi vicendevolmente interrogativi su cosa quotidianamente possiamo anticipare ed evitare rispetto a concertazioni governative che avranno conseguenze su intere generazioni a venire. Per non arrivare impreparatx come è già avvenuto durante la pandemia, ma anche a prescindere da qualsiasi incombenza nefasta. Forse proprio perché questo tipo di vissuto, più caotico ma anche più ricco di scambio, è già un ingrediente che ci sembra fondamentale, di quelli che ci fanno sentire un po’ meglio, genuino perché non ha bisogno di troppe indicazioni, anzi lievita soprattutto spontaneamente. Perché in linea di massima, nel dichiararsi contro ogni autorità non è affatto un programma a rendere quale sia il nostro stato di cura reciproca, ma la capacità tutta da allenare di non finire riprodurre forme dolorose di isolamento, darsi coraggio e ritrovare motivazioni al non rinunciare, magari proprio ripensando il nostro modo di stare insieme.. dietro a questi schermi ce lo chiediamo spesso, come possa continuare ad essere possibile senza doversi nascondere.
Apprendere a discutere di ciò che accade nei nostri ambienti di lavoro così come delle esperienze da “utenza” è ciò che ci auspichiamo affinché si possano poi creare gruppi mutualistici e alternative valide a ciò che il sistema capitalistico nonostante tutte le sue promesse sta dimostrando di negare. Il benessere psicofisico è qualcosa che spesso diamo per assodato, vista la varietà di proposte di cui disponiamo oggi. Eppure, l’insofferenza verso questo esubero, il costante senso di inadeguatezza, l’inquietudine per il disorientamento che produce, finanche il rigetto di moltissimx nei confronti della sensazione di doversi omologare a questa corsa al “di più”, sono solo alcuni degli effetti collaterali di un procedere consumistico che fallisce in fondo le sue promesse. Mentre in certe parti del globo vengono bombardatx interi territori, qui si bombardano costantemente gli animali d’allevamento per evitare ennesime fuoriuscite pandemiche e ci bombardiamo da solx di ultime offerte commerciali d’ogni tipo, tutte che volenti o nolenti in ultima analisi dipendono dai calcoli d’investimento che vanno a decretano il destino di intere popolazioni.
Pensando a tutte queste compromissioni, di quali e quante illusioni e distrazioni cui siamo abituatx dobbiamo arrivare a poterci liberare per riuscire a rivolgerci la domanda “di cosa ho davvero bisogno?”
Per fare un parallelo di metodo, un passaggio dello sviluppo scientifico che ha permesso di salvare vite anziché di impadronirsene è proprio l’osservazione eziologica, sulle cause.
E non possiamo non ricordare che le stesse lotte e rivolte tentino di base di svelare e combattere proprio le cause delle ingiustizie (ovviamente con tutte le diffoltà dirette in cui si imbattono), caso per caso. La pretesa di universalità o, all’inverso, l’attenzione al più piccolo particolare, sono comunque due poli complementari: portano ognunx in sé possibilità emancipative ma anche tante contraddizioni, oltre al contraddirsi tra loro quando cadono nella pretesa di unicità. L’equilibro tra di essi è spesso precario, ma ricercarlo anziché eliminare ciò che contraddice un assunto non farebbe che aumentare il grado di esperienza.. La ricerca di un sensato (o anche, sano) equilibrio tra le contraddizioni io-mondo e soggetto-oggetto comporta proprio evitare che uno dei due poli schiacchi od elimini la portata dell’altro, non solo per mera funzione di rispecchiamento nell’altro-da-sé, ma per tutto ciò da cui l’altro-da-sé deriva, e che nel rapporto con esso ci trova coinvolti a scegliere di considerare o meno. Questo si ricollega al paragrafo iniziale rispetto alla non-neutralità di ogni posizione, almeno in prospettiva relazionale: persino chi si ritiene ormai illusoriamente lontano da un certo ordinamento sociale può subirne comunque alcuni effetti, ma anche agirvi, allo stesso modo dei vertici che dirottano le masse, ma nondimeno è possibile il contrario! Ciò significa che non si può né obiettivamente né soggettivamente rinunciare ad un movimento dialettco tra questi sguardi, il generico ed il singolare. Il che può essere spiegato o contestato da varie filosofie e civiltà, le quali spesso hanno assunto declinazioni ragionate a riguardo ma che finivano per amplificarne l’una o l’altra polarità, mentre una focalizzazione biunivoca è forse proprio ciò che ci permette di reinventarci e non doverci per forza accontentare degli schemi esistenziali fissi che si viene ad ereditare. Un segnale che qualcosa vada cambiato è proprio quando si prova malessere: proprio questo ci spinge, per andare incontro invece a forme più autonome dello stare bene, che studino le maniere di autovalutarsi ed autodeterminarsi, o magari non studiano proprio un bel niente nel senso classico e formale eppure come metodo contemplano la trasmissione non gerarchica di conoscenze, condividendo i propri rimedi.. mica aspettando gli standard globalisti per farsi un’idea, figuriamoci nella pratica!
Quindi, cercando in prospettiva del G7 di capire cosa attende le collettività (perché di questo si tratta, purtroppo, mica di una conferenza su come sconfiggere il cancro..), se riscontrassimo, come secondo la logica prima accennata, che molte cause del nostro malessere sono proprio là fuori, mentre ciò che proviamo “internamente” si rivelassero solo effetti, ripercussioni sulla nostra stessa salute, e che questi finiscono per accumularsi più che altro per il modo in cui non riusciamo concretamente ad affrontare il nostro contesto esperienziale, si ritiene davvero che le nostre sensazioni siano da eludere banalmente aggiungendo della serotonina o correndo a farci diagnosticare qualche deficit? Non si sta qui negando che qualunque intervento ognunx veda appropriato al proprio intimo percorso possa avere un risultato obiettivo rispetto a ciò che si soffre. Si sta però ponendo la questione interrogandosi sulle misure massive, disposizioni che predeterminano i percorsi personali, anche solo come elemento culturalmente normalizzato, senza che vi sia una chiara costrizione in atto, ma che influisce sulle nostre possibilità decisionali.
Le contro-culture, ciò che difendiamo, non mancano di valorizzare l’uso di sostanze psicotrope, calmanti, acceleranti, spazio-temporalmente dissociative, e via libera sperimentando. Qui l’obiettivo non è certo contestare un determinato uso, anche qualora fosse placebo, e nemmeno il senso generale di una prescrizione medica; soprattutto, non si vuole ferire chi tenta così di non farsi abbattere da eventuali patologie. Ma si vuole fermamente capire se possiamo darci un qualche sostegno per preverirle, cominciando a non farci portatori delle loro stesse cause, e ciò sempre seguendo la logica di molte lotte emancipative, tante delle quali hanno aperto spiragli di libertà alle successive generazioni. Come si potrebbe superare la dimensione placebo senza concepire momenti di autocricrica? Eluderla comporta per prima cosa una relazione superficiale con altre persone ed il mondo stesso. Se guardiamo alle prospettive più catastrofiche sistematicamente proposteci, tanto l’autocritica che la critica vengono concepite come piuttosto inconcepibili da farsi pubblicamente, se non nell’assetto dei talk show.. ma riguardo alle possibilità di dibattito, più descrittivo che gli applasi a pagamento rimane semmai l’intervento della celere nelle strade, tant’è che un assetto autoritario è riconoscibile proprio laddove la variiabile critica venga meno. Magari anche lentamente, ma troppo spesso fino alla totale eliminazione di un contraddittorio, spesso in nome di qualche sicurezza fantomaticamente raggiunta. E ciò si rifletta tenendo sempre conto che nessunx è del tuttx immune, come nessunx è davvero innocente.
Non sarà che al solito dovremmo allora concentrarci sul fatto che tra potenze occidentali si senta ancora legittimo coordinarsi su come rendere le possibilità di diagnosi e cura un ulteriore strumento di ricatto sociale, persino senza che ciò desti troppe preoccupazioni? Non perché dovremmo avere contributi scientifici da portare o contrastare laddove non si conoscono nemmeno i brevetti, ma banalmente perché i piani degli amministratori ed i loro indirizzi collaborativi sono purtroppo sempre molto più lineari e già esplicitamente tracciati (si vedano le proposte del PNRR) di quello che giocano a mostrare attraverso le loro liste di rappresentanza.
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Di nuovo, come nel precedente post a riguardo, prendiamo in prestito le parole di un compagno marchigiano (cf. articolo pubblicato su Malamente proprio per lanciare una serie di contro-eventi in dissenso al G7) il quale ci indica in buona sintesi quali temi verranno messi sul tavolo dei diplomatici:
<<<<<<<<<<<<<<<<<< RACCOLTA LA MATASSA, I NODI DEL G7 AL PETTINE <<<<<<<<<<<<<<<<<<
“Dietro le quinte. Nello specifico dell’agenda dell’incontro di Ancona, studiando i documenti ufficiali emergono tre temi fondamentali:
a) IL TEMA DEI VACCINI E DELL’ACCESSO AI FARMACI
Nel G7 sono rappresentati i principali paesi che si oppongono all’eliminazione dei brevetti sui vaccini e sui farmaci. A livello globale la lotta per l’“apertura” dei brevetti sui vaccini e sui farmaci ha rappresentato per decenni una delle rivendicazioni esemplari dello squilibrio Nord/Sud nella globalizzazione neoliberale. Durante il G8 a Genova, nel 2001, l’allora portavoce del Genoa social forum Vittorio Agnoletto, fu una delle figure più mediatizzate e che tutti ricordano, ma al suo fianco c’erano numerosi attivisti e attiviste meno noti del cosiddetto Sud globale, che ponevano la questione della proprietà intellettuale sui brevetti come centrale nella nuova dinamica di sfruttamento capitalista che aveva sostituito il vecchio colonialismo di occupazione. La pandemia Covid-19 ha esacerbato delle contraddizioni già profonde, portando anche in Occidente il conflitto legato alla vaccinazione. Oggi ricordiamo i dibattiti infuocati sulla validità e l’opportunità o meno delle vaccinazioni e sappiamo che sicuramente attorno alla pandemia sono prosperati gli imprenditori politici della paura e del controllo, ma forse scordiamo troppo facilmente quanto l’iniziale scarsità dei vaccini avesse prodotto fenomeni di accaparramento, corruzione, speculazione. Alcune persone arrivarono a pagare fino a 10.000 euro per vaccinarsi privatamente, altre fecero carte false per ottenere vaccini a cui non avevano (ancora) diritto. Nelle nostre società abituate a un livello elevato di prestazioni e di consumi in ambito sanitario, abbiamo poca consapevolezza delle tensioni e delle sofferenze provocate dalla mancanza di farmaci, vaccini e cure mediche in situazioni di bisogno e di urgenza. Qual è la proposta a cui lavora il G7? Costruire fabbriche di vaccini private, mantenendo i profitti legati ai brevetti nei paesi poveri per soddisfare la loro richiesta di vaccini e farmaci facendo ripagare i prestiti finanziari, secondo un’ottica pienamente liberista, alle stesse componenti sociali che vengono già sfruttate dall’economia neocoloniale.
b) PPR: PREVENTION, PREPAREDNESS, RESPONSE
A giugno 2024 a Ginevra è stato discusso e approvato un documento avanzato verso la stipulazione di nuove regole globali per la risposta alle pandemie, sotto forma di emendamenti al trattato dell’OMS International Health Regulations del 2005. Le principali innovazioni sono una definizione univoca di emergenza pandemica e dei sistemi di allarme e di risposta condivisi, la creazione di Autorità nazionali preposte alle regolazioni sanitarie e un meccanismo finanziario coordinato per attivare trasferimenti di fondi di emergenza per fare fronte alle difficoltà economiche dei paesi più poveri o in maggiore difficoltà finanziaria. Tutti questi approcci globali e umanitari si scontrano però con le contraddizioni di fondo che vedono i governi del G7 come parte in causa, in quanto difendono gli interessi di alcune delle maggiori case farmaceutiche globali e utilizzano coscientemente il potere medico e sanitario come strumento di pressione geopolitica. Per questo motivo la vecchia ma sempre attuale rivendicazione dell’eliminazione del brevetto dai farmaci salvavita e dai vaccini è fondamentale per ristabilire delle condizioni basilari di equità e di sicurezza sanitaria.
c) STUPEFACENTI E REPRESSIONE
L’approccio del G7 nel campo degli stupefacenti è costantemente improntato alla repressione e alla criminalizzazione, nonostante nel mondo stiano costantemente crescendo le evidenze scientifiche della validità della legalizzazione e della depenalizzazione. Nelle Marche abbiamo avuto un tragico assaggio del connubio patologico tra proibizionismo e repressione psichiatrica nel caso del giovane Matteo Concetti, morto suicida nel carcere di Montacuto a gennaio 2024. Del suo caso abbiamo parlato nel numero 32 (marzo 2024) e abbiamo sostenuto la richiesta, ancora attuale, di dimissioni per incompetenza del Garante dei detenuti, Giancarlo Giulianelli. Nelle Marche poi non dobbiamo dimenticare l’ingombrante presenza di uno dei capi politici di Fratelli d’Italia, lo psichiatra Carlo Ciccioli, oggi eurodeputato, che già nel 2012 provò a minare dalle fondamenta la legge Basaglia, senza riuscirci, ma che oggi continua a promuovere una cultura tradizionalista, paternalista e autoritaria applicata alla salute mentale.
Nel carcere e nelle strutture di contenzione psichiatrica il legame problematico e mortifero tra repressione e droghe accelera e si intensifica, ma presenta la stessa grammatica sghemba che troviamo nelle strade. Il consumatore di sostanze viene sfruttato dalla criminalità e diventa bersaglio della polizia che cerca di aumentare la propria produttività penale con una fonte praticamente inesauribile di illegalità. Negli ultimi tempi il movimento antiproibizionista in Italia ha subito numerosi contraccolpi e negli anni è molto arretrato, spesso delegando ad attivisti in cerca di visibilità improbabili campagne mediatiche. Sul terreno oggi sono rimasti operatori e operatrici sanitari di base che difendono i diritti delle persone tossicodipendenti nella pratica quotidiana con enormi limiti e problemi.
…”
Quest’ultimo punto ci tocca in larga parte. Come già accennato in precedenza, comprendere come il Sistema sanitario operi sinergicamente a quello carcerario è di cruciale importanza in ottica di autodifesa e per mantenere un approccio indipendente anziché lasciare che siano gli istituti preventiti e premiali ad occuparsene togliendoci la legittimità dei definire noi stessx quale sia il nostro stato di bisogno psicologico. Il rischio è quello che si vengano a determinae standard sempre più alienanti, socialemente accettati così come i metodi sedativi e dissociativi, sia volontari che coatti, i quali sono ampiamente abusati in carcere e nei CPR.
In particolar modo per evitare le proteste, a corredo degli interventi da squadretta, da tempo infatti la somministrazione di psicofarmaci si effetua al fine di una vera e propria normalizzazione disciplinare, anche quando non pubblicamente dichiarata. L’aspetto più disorientante, che lascia impotenti, è che spesso non si tiene conto della storia individuale: seppure per la grande maggioranza della popolazione carceraria la reclusione venga assegnata per reati minori, il contesto di difficoltà materiale e/o di traumi in precedenti esperienze non solo non vengono considerate, bensì comportano un ulteriore perseguibilità in attraverso schedature sommarie che vanno a rafforzare la categoria di soggetti emotivamente instabili o socialmente pericolosi. La costruzione della fedina penale attraverso diagnosi è quanto di più lontano dalle lotte che sono state fatte per la stessa chiusura dei manicomi e degli OPG. Se si aggiunge poi che da almeno un decenno ben un terzo dex detenutx con problemi di dipendenze è sprovvistx di cittadinanza italiana si può cogliere che il discrimine razziale, che spesso non fa che coprire quello classista, serve soltanto alla propaganda securitaria ed alle grandi mafie stesse, oltre al fatto che gli abusi su persone che hanno meno facilità di trovare una rete di solidarietà interna ed esterna le mura, e la cui famiglia o si trova distante o non ha le possibilità di avanzare richieste in aiuto delx proprix carx.
Per abusi intendiano appunto anche quelli medicalizzanti, ossia quelli che non esitano a condizionare ed annichilire la volontà di detenutx e “utenze” di vario grado. Facendo a pieno titolo parte del Sistema riabilitativo, degli esiti nefasti non vi è praticamente letteratura pubblica: restano le testimonianze dex singolx diffuse dalle proprie famiglie e da solidali, cioè coloro che ancora non si lasciano abbindolare dalle retoriche stigmatizzanti e mostrifcanti tenendo presente i contesti di marginalizzazione da cui la violenza scaturisce e nei quali le dipendenze e la tendenza “a delinquere” sono spesso una conseguenza di problemi collettivamente non risolti, non tanto l’origine: in questo senso prospettive abolizioniste, dei penitenziari così come in passato dei manicomi, non negano la gravità di alcuni comportamenti, ma pongono il problema dell’inutilità abbastanza conclamata del modello punitivo e della sua ragione strumentale, che allontana dalle possibltà di investire le energie in altri approcci, più attenti ai bisogni concreti e meno tribunaleschi, valorizzando le strade di una giustizia che sorga dal basso. tenta di capire cosa renda insalubri le nostre vite, renda tossicx noi stessx, e invece che dare la colpa al drogarsi si ritorna ad ogni ragionamento alla questione economico-organizzativa. Se state pensando che siamo di parte, torniamo a vedere a cosa stiamo andando incontro, e perciò contro cui ci si pone: l’intero complesso economico non è altro che un sistema di dipendenze a cui si sopperisce con altre dipendenze, e dove queste ultime vengono trattate con pestaggi e condizioni paragonabili alla tortura, come le varie prassi di condanna all’isolamento.
Non può considerarsi un caso che stia venendo incentivata sempre più la collaborazione tra gli apparati dirigenziali e le lobbies farmaceutiche nelle politche di controllo sociale, capillarmente, fino ad integrare mansioni diagnostiche e di invio ai servizi sociali entro la formazione didattica di insegnanti, soprattutto per le primarie. Risalendo allora dalle contraddizioni insite nel disciplinamento scolastico fino al connubio repressivo applicato da guardie ed operatori sanitarie insieme in virtù del rispetto di ruoli e protocolli, si può concludere che, benché l’avere premura dei vissuti personali sarebbe appunto l’unico baluardo riabilitativo sostenibile, liberandosi finalmente dall’aut aut tra privilegio ed oppressione, dopo secoli di insediamento di logiche di dominio si preferisce relegare quelle di cura delle relazioni, nonché quindi focalizzandosi su una ricerca costante di armonia tra le dimensioni individuali e quelle collettive, a qualcosa di “utopistico”. Eppure, questo approccio è stato e continua a venir praticato in molti versi attraverso situazioni più o meno comunitarie (*) cercando di confrontarsi su ciò che viene recepito come atteggiamento che nuoce, anche “solo” secondo una percezione minoritaria (o nondimeno, “soprattutto”!), per crescere nella consapevolezza ed evitare di dover arrivare a reprimere istinti e categorie intere di persone, cosa che allo stato attuale è ancora molto complicato.. non per l’illusorietà di questo aproccio, ma per via di una cultura sedimentatasi sull’aut aut tra privilegio ed oppressione.
Come alternativa quindi, anziché illuderci di poter rifuggire la sofferenza, si desidera piuttosto maturarla. Ciò può essere facilitato in ambienti che permettono la condivisione di pratiche autonome anziché la riproposizione di un modello che non ci rende nessun tipo di benessere reale, se non qualche surrogato di stabilità. Ma l’impedimento non sta tanto nei surrogati cui si cede: non si considerino solo le sostanze o le ricette mediche, può essere anche un lavoro sotto padrone, una convenzione famigliare in cui sentiamo di non poter essere noi stessx, etc.. Anche queste sono scelte indotte, qualcosa che ci allontana da sé e che può sfociare in ennesime compensazioni o crisi. Pensiamo anche solo a quanto conti avere delle amicizie intorno a sé, una base abitativa senza addebito, non veder distruggere i territori in cui si avrebbero invece progetti comuni. Se pensiamo che molti profughx di guerra finiscono perseguitatx dalle decisioni ministeriali “nostrane”, diviente evidente che i dettami di salvaguardia e sicurezza calati dall’alto si intrecciano fortemente a quello di salute (minandola alla base non solo dal nostro punto di vista, ma nella formalizzazione stessa delle carte dei diritti.
E’ chiaro che per la forma Stato-Capitale tale ideale di superamento del crimine potrebbe non costituirebbe affatto un buon affare.
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Per approfondire come si stia sviluppando il legame tra stupefanti e farmaci si possono suggerire una serie di zine antipsichiatriche o i podcast di molte radio di movimento (qui per esempio trovate lette alcune pagine da Breve ricettario Antipsichiatrio del Collettivo Antonin Artaud di Pisa, dall’esperienza ormai decennale, che sarà presente alla Street ad Ancona. Per l’occasione dell’ANTI g7salute è stata poi contattata la rubrica Ricongiunzioni, in onda dal 2021 su Radio BlackOut, la quale si occupa di espropriazione e riappropriazione in base alle pieghe che assumono via via gli apparati medicalizzanti, nonché alle piaghe che ne conseguono in termini di salute, ossia agli effetti collaterali del ritrovarsi passivx entro una dimensione capitalisticamente gestita della cura; ciò nonostante i progressi millantati, i quali invero, più che decretati a tavolino da dirigenti e assi dell’avanguardia scientifica, sono stati ottenuti -e dovuti- semmai da lotte tanto precedenti e propedeutiche le fondamenta e le evoluzioni stesse dello Stato di Diritto, quanto nondimeno conflittuali internamente ai servizi assistenziali.
“Ogni assetto sociale prevede soggettività che possono, per cui è (legittimo) agire violenza e altre per le quali questa possibilità non esiste.
La violenza così scompare, viene assorbita dai corpi (che subiscono quella dei ruoli di merito), interiorizzata con la conseguenza che «l’aggressione contro gli altri si ribalta nell’aggressione contro se stessi»
[da Ricongiunzioni, Radio BlackOut: “dal carcere premiale, esperimento poi esteso al governo disciplinare nella società tutta, in questa puntata raccontiamo come i corpi assorbono e ridirigono la violenza, provando a dare una lettura politica dell’autolesionismo.”]
In particolare, rigettiamo le maniere spersonalizzanti, con la pretesa di poter classificare come patologie una complessità di stati emotivi che sono invece spesso campanelli d’allarme di difficoltà che ben oltre gli effetti psicofisici si possono spiegare rispetto a contesti relazionali poco maturi in senso di autogestione collettiva, dove spesso alcune pretese economico-politiche e mancanza di dialogo e di obiettivi comuni tale per cui si ricade non di rado in compensazioni quali l’abuso di stupefacenti, che danno ulteriormente luogo a incomprensioni e rapporti disfunzionali e finiscono con l’essere trattati come causa del problema quando anzi rappresentano spesso tentativi disperati di facile risoluzione. Tutto questo è evidente non appena usciamo dalle pretese di performatività che socialmente ci vengono richieste, e dai corrispettivi ruoli ricoperti, e ci si apre a cercare di capire la dimensione politica in cui interagiamo. Come l’anamnesi in medicina, così il materialismo storico per i nostri legami organizzativi. Basterebbe davvero qualche sforzo dialettico per evitare molte discussioni personalistiche che invero ricacciano le individualità nel proprio orgoglio ferito e spingono i gruppi a disorientarsi rinunciando alla ricerca del vero e del giusto, e quindi anche del “sano”, poiché tutto l’esperibile diventa tristemente una questione di coalizione e di capacitù dell’individuo. Anziché di riconoscersi in comuni percorsi emancipativi si lascia dilagare ed infiltrare anche in ambito libertario concetti liberali di realizzazione, come l’ipocrisia meritocratica che non guarda mai alle possibilità originarie delle soggettività, solo al loro potere acquisito, o ancor peggio, ereditato. Ed è proprio su questa linea che si continuano ad applicare protocolli sanitari in cui è facile rintracciare una matrice positivista che li tiene ancora oggi legati ad un concetto giurisprudenziale di devianza. Questo sincretismo ideologico è talmente funzionale alla gestione dell’ordine pubblico che per consuetudine non si contesta, si lascia che venga indotto, fino ad arrivare a privare le singole soggettività – così ridotte a utenza clinica – di una propria una autonomia decisionale.
É fondamentale capire come la violenza repressiva cui ci sottopongono non viene certo esercitata soltanto attraverso le fdo.
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Dal momento che la questione “salute”, valutata genericamente, arriva a toccare veramente qualsiasi ambito, cosa pensiamo sia prioritario?
<<<<<<<<<<<<<<<<<< QUALCHE CONCLUSIONE.. PER USCIRE DA QUESTA MORSA <<<<<<<<<<<<<<<<<<
Per questi motivi vorremmo non dover finire a trascurare né i momenti di confronto né di sperimentarci in tutte le forme di supporto tra esseri viventi in cui possiamo riconoscerci non solo come oggetto ricettivo ma puntando ad una rielaborazione delle proprie esperienze. Ovviamente auspicando che essa sia praticabile con meno mediazioni/ricoveri possibili: ricordiamoci degli incessanti tentativi di non lasciar delegare ad istituzioni totali un senso proprio della cura, ne gioviamo davvero tuttx! Persino l’organizzarsi insieme trova forza nella capacità di “anamnesi” delle lotte reciproche..
L’approccio che rivendichiamo, uscendo da mere analisi sistemiche (ed evitare di farsi demoralizzare definitivamente da previsioni angoscianti) non richiede in fondo grandi sforzi o competenze bensì un terreno comune del lasciare attivamente spazio alla sensibilità, al non essere giudicanti rispetto a percorsi personali, al trovare canali di espressione per le proprie sofferenze, al dare una spalla ad affrontare alcune debolezze, all’empatia.
Certo non sembra affatto facile dare concretezza a quest’approccio e forse appare quasi ipocrita sognarlo, ma non sarà perché viviamo in una società in cui la salute è trattata come una merce ed al contempo non raggiungibile per chi non abbia specializzazione? E non si nota che le relazioni stesse raramente risultano sane in sé, bensì più spesso seguono meccaniche dissociative, ossia maschere e compromessi che danno luogo a scompensi.. ed a conseguenti false soluzioni a catena?
Non ci fa invece sentire già meglio pensare a cosa conta per noi, ben prima e ampiamente al di là del progresso occidentalista entro cui vengono dirottate le nostre vite?
I temi che i governanti pianificano sulle nostre teste più che avere a che fare con la cura non riguardano forse una necessità di mantenere produttive le industrie e in miseria le aree che si possono ancora spremere? Non ci si chiede perché non si smette di rifornire armi, sterminare popolazioni non vendutesi, distruggere interi ecosistemi? E non si tiene conto forse che le emergenze sanitarie sono alimentate proprio nel versante coloniale, attraverso sfruttamento animale e tramite esposizione a scarti inquinanti? Quali malattie ci colpiscono davvero? Ed a confronto, come ci sembra si stia orientando il welfare sanitario, o quel che ne resta? Chi lavora nel settore ha forse voce in capitolo? E chi riceve li trattamenti??
Sono solo alcune delle rilfessioni per cui non sembra affatto niente infantile -al contrario!- osare pensare di potersi ridefinire, di puntare a decentralizzare i finanziamenti, autonomizzare le prassi medicali, di prenderci la responsabilità noi stessx, scegliere liberamente come coinvolgerci nel mondo.
Our minds, our critics ..
My body, my choiche!