Loading...

(Just one moment)

NO g7 salute! Le tematiche che verranno messe sul tavolo… E qualche spunto critico

> A che concetto di “salute” si riferiscono i Governi e l’ONU stessa?

>> Ed in base a quali riformulazioni politiche ne stanno trattando?

<<<<<<<<<<<<<<<<<<
PREMESSA : INDIVIDUI MALATI.. O SOCIETA’ DEL MALESSERE ?
<<<<<<<<<<<<<<<<<<
Per prima cosa, non dimentichiamo che il prossimo indecente meeting globale è solo l’ultimo di una lunga serie di incontri che puntano ad una ristrutturazione economico-politica per cui sono state valorizzate sempre più le ambizioni di stampo aziendalistico secondo il modello americano.. approdato inesorabilmente anche in ambito di cura.
Si va dal disincentivo pubblico nei confronti della formazione professionale di personale sanitario (ed assistenziale in genere) fino alla sempre minor copertura delle spese mediche di base e ad una ingiustificata eliminazione progressiva delle possibilità di degenza ospedaliera. Nel dettaglio, la contraddizione rispetto alla percezione comune di poter disporre, in Italia, di una serie di garanzie medicali, si é resa evidente nel periodo dal 2020 al 2022, durante il quale si contava come nell’arco di 40 anni siano stati tagliati precisamente 32.508 posti letto ospedalieri. Una “scoperta” questa di cui in tantx ci é resx conto soltanto quando ci sarebbe stato semmai bisogno di innumerevoli ricoveri di fortuna, e ciò non senza poter attingere ad una serie di osservazioni, cioé presagendo scenari come quello pandemico. Invece, negli ultimi 10 anni sono state chiuse 95 strutture sanitarie di base, le quali corrispondono ad una sottrazione del 9% dal numero totale; una percentuale che vista la crescita continua della popolazione, in particolare di origine migrante, sarebbe stata piuttosto da aggiungere (!) se solo si fosse voluta mantenere in qualche modo costante la disponibilità media a persona precedentemente prevista per le degenze.
Per far cadere nell’indifferenza generale questo come altri rapporti virtuosi per cui il servizio sanitario è stato lungo tempo ritenuto adeguato al carico delle condizioni di infermità, ossia per perpetrare un vero e proprio processo di smantellamento del welfare, le amministrazioni non possono che essersi servite di un coordinamento alquanto omertoso, di quelli capaci di raggiungere capillarmente ogni livello dell’organizzazione sociale fino al punto da non doversi più preoccupare di ricevere reazioni sindacali, o di contrasto spontaneo. Sarà forse per via di questo silenzio-assenso che attraversa le routine dell’organico di simili servizi-azienda che non ha mai provocato sincero stupore nemmeno il fatto che i Governi succedutisi, anziché puntare a poter sostenere un benessere davvero improntato al tessuto sociale ed alla sua tutela, in particolare dall’esposizione a sostanze nocive, o anche solo in termini di prevenzione di base, abbiano preferito dirottare finanziamenti pubblici in politiche interventiste belliche dipendenti dalla NATO, ancora e ancora, insieme a misure securitarie interne. Queste comprendono dall’assunzione spropositata di nuove forze dell’ordine fino alla progettazione di continui piani carceri. Va da sé che questi, se si volessero intendere come soluzione al problema dell’inadeguatezza delle strutture attuali, vengano di volta in volta prospettati con linee completamente irrazionali: viste le continue rivisitazioni peggiorative dello Stato di Diritto di certe misure penali, non ci si può illudere che Case Circondariali un po’ meno obsolete non sfocino comunque in situazioni di insalubrità (soprattutto quella semplicente tolta alla vista dei passanti) e che non svolgano comunque funzioni di tortura.. Ma se costruire nuovi edifici per la reclusione è pur sempre sostenibile in veste di una propaganda pacificatoria, nondimeno lo è in ottica di concertazione affaristica: quanto ai nuovi padiglioni ed ai ritocchi architettonici, benché la spesa al momento pronosticata per 30 interventi si aggiri sui 30,6 miliardi di euro, la convenienza viene ricavata su lungo termine, nel senso della facilitazione di funzioni di sorveglianza e di ordine pubblico, e insieme come investimento per molte aziende e cooperative in lista d’attesa per servirsi dex detenutx come manodopera a costo ridotto ai minimi termini, e molto più ricattabile, come del resto insegna la storia del carcere. Si tratta, in effetti, di una ennesima pianificazione d’appalto che tenta di coprirsi dietro alla distorsione del concetto riabilitativo, distorsione che avvalla l’idea che via si possa ricavare un grado di colpevolezza in coloro che pur non versando in condizioni economiche favorevoli vorrebbero invece evitare di prestarsi non solo a forme di collaborazione con la Giustizia, ma anche di finire sotto contratto con la dimensione lobbistica del padronato, o simili passaggi tra gabbie. Al di là dell’apparente evoluzione sociale che tenterebbero di promuovere queste scelte, si rende evidente il livello di civiltà realmente raggiunto, ancora troppo lontano da prospettiva abolizioniste, le uniche davvero emancipatrici.
Le rivolte di detenutx estesesi nel 2020 furono rivelatrici delle condizioni insalubri, di privazione arbitraria, di pesante sovraffollamente delle celle e di prassi punitive chiaramente nemmeno previste dall’ordinamento, ma si continua ad eludere il fatto che il sovraffollamento carcerario o il contrappunto dell’isolamento totale, due lati della stessa moneta, siano conseguenza della malagestione dei procedimenti penali e dell’accanimento verso chi ha meno tutele legali. Parliamo di persone che pur accusate di reati minori non possono permettersi di accedere ai domiciliari, o che solo dopo molti mesi ottengono di poter essere collocate in percorsi apparentemente meno legati a qualsivoglia ratio punitiva (dal momento che l’integrazione imposta rimane molto problematica..), come le comunità per le tossicodipendenze, o inviati in strutture psichiatriche, ma più spesso trattenute in normali sezioni anche quando affette da disturbi dell’umore. Non per niente, nelle carceri i numeri di suicidi sono moltiplicati rispetto all’esterno. Gli operatori di salute mentale ed i volontari che non affrontino queste problematiche alle fondamenta si possono ritenere complici di forme di oppressione psicofisica cui vengono sottoposti soggetti già indeboliti dalla procedura giudiziaria, e tutto ciò proprio mentre si afferma di voler perseguire democraticamente una generica idea di ordine pubblico che corrisponde a standard di salute esplicitamente borghesi. Proprio per questo, rispetto alle rivendicazioni proprie di prigionierx e “popolazione carceraria” non ci toccherebbe nemmeno di finire a confrontarci nel ginepraio di procedure preventive e punitive, bensì di poterci offrire vicendevolmente delle possibilità sociali di riscatto, cogliere quali possiamo rimettere in campo (come si accennerà verso la conclusione di questo scritto critico). E ciò a partire dalla critica della condizione in cui loro stessx versano, proprio in quanto considerati parte malata del nostro assetto sociale.
Prima delle riflessioni vere e proprie che si intende qui condividere, almeno come accenno e spunto, è forse audace ma affatto inopportuna la provocazione che anche figure non-specializzate dovrebbero poter essere in grado di orientarsi e di poter fare scelte ragionate, soprattutto quando si tratta della propria vita. Oltre all’aver più chiaro che tipo di investimenti avvengono attraverso i contributi versati, sarebbe perciò imprenscindibile capire come si sta indirizzando un insieme di saperi che in quanto scientifici si ritiene “non possano venir messi in discussione” dalla cosiddetta opinione pubblica, che altro non è che opinione mediata. Si potrebbe contestare questo stesso approccio quantomeno quale paradossale, rispetto a ciò che è valso nell’evoluzione del metodo scientifico occidentale stesso, ovvero, il dubbio.
Preme comunque sottolineare di nuovo un assunto chiaro, in quanto dal nostro punto di vista rimane fondamentale ed affatto scindibile dal rispettivo posizionamento politico o da qualunque osservazione che riguardi i fondi economici, soprattutto presenti e futuri: non è la “salute”, bensì l’aziendalizzazione della Sanità, la privatizzazione dei servizi, che troviamo venire progressivamente incentivata. E ciò nonostante e anzi come origine dell’inflazione, in perfetta simbiosi con politiche di esclusività tramite argomentazioni razziste, le quali puntano a produrre un ulteriore scarto tra chi può permettersi determinat criteri di cura e chi invece ne ha sempre meno diritto, sia arrivata a colpire spesso finanche le classi medie. Non sembra poi mai essere stato posto da parte dei piani dirigenziali, nemmeno nella valutazione dell’emergenza influenzale, il problema che già dal 2019 fino al 2022 oltre 11.000 medici hanno smesso di esercitare nei comparti pubblici. Abbiamo in quel frangente potuto sentire varie testimonianze di come in particolare in momenti di urgenza il ricambio generazionale le cui assunzioni avvenivano tramite appalto non ha potuto rendersi adeguato al livello di preparazione medica necessario ad evitare ulteriori complicazioni, approssimazioni e ritardi operativi. E ciò non è stato affrontato perché il senso pregnante della ristrutturazione verso cui si procede è esattamente quello di disgregazione della disponibilità ospedaliera: ecco l’indirizzo del PNRR e dei retroscena dei programmi ONU..
Il problema quindi rimane sulle spalle di chi aspetta di ricevere e fruire di quel tipo di servizio. Invece sembra si stia pian piano dimenticando quanto la stessa burocratizzazione e l’imposizione di standard affermatesi attraverso il servizio sanitario pubblico siano state contestabili e trasformabili, come hanno dimostrato lungo i decenni il movimento femminista, le lotte contro l’oppressione psichiatrica, i comitati contro la nocività e gli inquinanti urbani, che mentre sostenevano una estensione dello stato sociale, contibuivano a che la sua portata fosse il più possibile popolare, per quanto gli esiti non abbiano soddisfatto le aspettative: nel terzo settore sono spesso gli ibridi tra pubbliche amministrazioni ed associazionismo di volontariato e promozione sociale che permettono di reggere le richieste di aiuto della cittadinanza, ma non si può dire che queste forme per certi versi autogestite non finiscano per dipendere da specifiche direttive che ne limitano la portata e soprattutto l’autonomia nelle possibilità riorganizzative entro il proprio contesto abitativo, ossia quello più specificatamente comunitario (ormai solo in potenza).
Troppo spesso anzi non si considera affatto il quadro specifico dell’insorgenza di uno stato di malessere; non da ultimo, il quadro ambientale, appunto. Gli stessi esempi riportati in precedenza quali variabili raccolte dall’azienda ospedaliera costituiscono dati che dovrebbero essere ampiamente discutibili quartiere per quartiere, frazione per frazione, e non come generica astrazione, se solo non fossimo abituatx a reificare il soggetto malato semplificando grossomodo il quadro delle casistiche che lo riguardano a quello organico di una patologia isolata, e questo processo riduttivo può spingersi ad operare una disumanizzazione delle esperienze che ne conseguono, o che lo precedono, sommandosi entro quella che Ivan Illich chiamava iatrogenesi riferendosi non solo ad effetti collaterali ed errori medici vari, ma anche al loro portato sociale e culturale, nel senso di ricerca di specifiche doti performative complementari all’eccessiva fiducia riversata sulle formule farmaceutiche e chirurgiche via via speriementate: abbastanza allarmante, e nemmeno casuale, che in America le morti per ragioni medicali tuttora seguano in numero soltanto a quelle di cancro ed infarto. A confronto di una ricchezza di sguardo che comprenda tutte le specifiche di un caso, e che non dovrebbe mai escludere la qualità dei rapporti interpersonali tra gli elementi di cura, a poco può valere il livellamento delle proposte di intervento, ovvero l’approdo contemporaneo a prassi omologate e massimaliste, al punto che non è azzardato affermare che si possono ormai ricavare più informazioni utili e fruibili compilando sondaggi orizzontali piuttosto che affidandosi a uno specialista.
Tant’è che ciò che si può mettere a critica di una gestione strettamente privatistica è persino ciò che preclude il libero accesso, oltre che alle visite, alle meta-informazioni a riguardo, le sole attraverso cui secondo una determinata metodologia si possono supportare ulteriori studi (per quanto questo non sia vero per molte popolazioni indigene ancora autonome nell’affrontare condizioni di infermità, e nei riguardi dei quali medicx compagnx riferiscono che invece l’applicazione di teorie e terapie occidentali tendono piuttosto a risultare dannose; cf. Transitare le pandemie con Ivan Illich, 2021). Ci si riferisce a quel minimo comune bacino di open-data istituzionali, sempre troppo pochi e nemmeno predisposti per essere adeguatamente confrontabili tra loro, che possono offrirci qualche indice di riferimento degli andamenti non solo propagandati e legiferati delle varie pianificazioni a cui si viene sottopostx. In particolare, i resoconti sui risultati conseguiti o meno da determinate scelte operative, quantomeno, come ogni rapporto statistico confrontabile e ancora non del tutto oscurabile, possono essere prezioi per smascherare la non congruenza di alcuni grafici con le retoriche governative e dei ruoli dirigenziali in genere, e magari offrire una cognizione minima delle logiche che vengono applicate. Nei periodi di ristrettezze e lockdown per il Covid-19 sul portale ISTAT si poteva riscontrare distintamente che, quanto ad ognuna delle influenze tipicamente invernali, occorrono già di norma non meno di due anni per avere conferma di un resoconto di quante morti sono dovute alla relativa febbre e per quante invece essa è sì stata decisiva ma non causa prima, andandosi a sommare ad altre infermità. Ma le cifre che si susseguivano nei notiziari non comprendevano certo di venire intesi secondo un simile dettaglio… Spero questa contraddizione tra i dati delle PA e quelli dei media ufficiali, consapevolmente perseguita secondo logiche di contenimento e distrazione da aspetti più gestionali, suggerisca banalmente come vi siano diversi livelli di amministrazione che spesso non combaciano con ciò che annunciano. Ridurre le mediazioni può invece aiutare ad evitare fraintendimenti, se non addirittura specifiche manipolazioni, come più che altro accade.
Non si può essere neutrali nemmeno nello sforzo di diventarlo, ma in ottica sistemica avviene qualcosa di peggio, che spesso agisce sulle emozioni delle masse invece di stimolare queste ad autonomizzarsi. Spesso è proprio l’instillazione di paura, una paura che spesso non ci apparterrebbe nemmeno eppure finisce per condurre molti dei livelli della nostra esistenza. La paura di perdere il lavoro, di finire in galera, o anche solo di non sembrare “normali”. Ed è poi un banale riciclaggio di queste paure, come anche quella di non avere alternative, che serve ad evitare un tracollo della malagestione governativa, di una situazione padronale ed oppressiva, di un amore persecutorio, .. Non ci sono motivi trascendentali dietro la scelta di impostare le relazioni sulla paura: è sempre una questione di potere, ma è un potere che nonostante tutto vacillerebbe persino, se si ritrovasse finalmente senza tutti gli strumenti ed i vincoli che gli si fornisce, che gli si cede,.. paura compresa.

> Sappiamo davvero distinguere un bisogno individuale e/o collettivo rispetto a quelli costruiti sulle nostre teste

e cui spesso si viene assuefatti attraverso la leva su un generico senso di insicurezza?

>> Come viene strumentalizzata quest’ultima rispetto al sistema ospedaliero ed al welfare in genere?

>>>>>>>>>>>>>>>>>>

Per capire verso quali prossimi naufragi (come nell’alternanza tra le alluvioni ed una siccità con annessi incendi forestali) si viene direttx con tanta inerzia, ma anche per non perdere di vista alcuni scogli, ossia verso quale consapevolezza ci si potrebbe attraccare per un’attimo di praticità oltre che di polemica, sarebbe da ripescare seriamente la storia, e non s’intende con “storia” quella ufficiale, ma nemmeno quella che la nasconde in maniera fuorviante, manipolando le proprie stesse verità comprovate. In questo senso infatti si arrivano a confondere la controinformazione con falsa informazione, depistando la popolazione fino ad ottenere che si accanisca su alcuni capri espiatori perdendo d’occhio la realtà sistemica su cui invece potremmo talvolta persino oggettivamente confrontarci. Tornando al periodo pandemico per esempio, non è bastato che fra il totale dei decessi avvenuti su tutta la penisola, tanto all’inizio quanto alla fine dello stato di emergenza, addirittura un terzo ricadesse a Milano, città che non a caso è un concrentrato di svendita della medicalizzazione… ed in cui le REMS per anziani non sono state certo un esempio virtuoso di contenimento. Per quanto ogni elenco frettoloso rende molto approssimativa una possibile argomentazione, al di là dei notiziari la cifra dei morti in correlazione alla provincia di Milano esisteva come dato pubblico, il che non richiede di prestarsi a vagheggiamenti o teorie del complotto: si tratta di una semplice osservazione su quanto la dimensione metropolitana abbia influito sull’incidenza dei casi gravi (per approfondire, si rimanda ad un articolo specifico pubblicato su Effimera, Il disastro della sanità lombarda”). Questa correlazione avrebbe anche potuto rendersi sufficiente a smontare l’impianto su base delatoria promosso rispetto ai mancati accorgimenti precauzionali protrattisi durante i vari lockdown, modalità quasi persecutoria che tentava di attecchire fin nei paesini di montagna. Concretamente, al di là delle riflessioni politiche più o meno fuorvianti scaturite, si trattò insomma non di prescrizioni medicali coerenti con i dati raccolti, bensì di propaganda mirata alla salvaguardia di imprese ed alla desaturazione di servizi pubblici al collasso.
Ma anche senza dover scomodare un frangente emergenziale, ci basti pensare alle liste di attesa per comuni accertamenti sul proprio stato di salute: se si sono allungate, al pari di altri uffici amministrativi, non è forse proprio perché è stato incentivato il passaggio all’ufficio privato? Come dire, un cane che si morde la coda ne uscirebbe sicuramente più saggio, se non si trattasse nuovamente mica di evitarsi nuove ferite, nuove problematiche, nuova malagestione, bensì di una preoccupazione sommariamente economica. Perciò si continua a lasciar che si morda, intrattenendoci in una sorta di distrazione dissociativa. Il fallimento è tutto sociale, non certo di chi avanza determinate ristrutturazioni attraverso grandi investimenti oppure dirottandoli anno dopo anno verso le politiche disciplinari e appunto belliche, come già ricordato Eppure ci si limita a pregare di non finire mai a indebitarsi per pagare visite e terapie senza osare contestare la perdita accelerata di alcune conquiste popolari. Al contrario, già sul piano della prevenzione si finisce facilmente in balia di pubblicità e tendenze competitive attraverso cui un soggetto malato compie definitivamente il passaggio a semplice cliente, e probabilemente non ha nemmeno le forze di potersi orientare adeguatamente onde evitare di venire raggirato. Non è dato conoscere la materia degli specialisti nemmeno quando riguarda la propria salute.
Molte visioni distopiche, limitandosi a capire quali esercizi si dedicano le strutture gestionali, alla fine ci hanno azzeccato, perché le premesse erano gà chiare. A furia di accettare di essere ingranaggi di una megamacchina, la salute non può che ridursi al avere sempre carburante, ogni tanto il cambio dell’olio, fino alla sostituzione di ognunx di noi per intero appena ciò sarà ben più conveniente di qualche riparazione. Anche perché, corrisponendo ad un meccanismo piuttosto lineare dell’andamento sistemico, se ogni miglioria gestionale è su molti aspetti il risultato di lotte interne ed esterne ai vari comparti disciplinari (a partire dalla messa in discussione delle procedure amministrative), nel momento in cui queste lotte vengono a sospendersi, ecco tale miglioria venir prontamente revocata. Nelle forme contrattuali fino ai nostri legami più intimi, addirittura entro le nostre routine, siamo ormai secolarmente condizionatx da simile spietatezza meccanicistica.

> Dunque, si può stare davvero bene entro questi termini?

>> E come si può esercitare una professione di cura in maniera adeguata con simili premesse?

>>>>>>>>>>>>>>>>>>

Appena ci si spinge ad li là del condurre esistenze freddamente calcolate e insieme calcolatrici si assume una posizione disurbante, ma che proprio esponendoci ad attacchi e retrocessioni professionali ci permette di analizzare il senso complessivo delle nostre interazioni e apre le strade a nuove sfide sociali. Proprio quelle che gli assetti governativi recuperano per validare ulteriormente la proiezione progressista per cui non vi può essere alernativa, quando invece vediamo che molte delle evoluzioni su cui essa specula non sono altro che il risultato della libera iniziativa di singoli e consociazioni riunite per occuparsi delle proprie problematiche in via non mediata. La gestione istituzionale è spesso piuttosto successiva a queste esperienze virtuose, non le incentiva all’origine, anzi raccogliendone le istanze e privandole di autonomia in primis economico-legistativa si può ben dire che finisce per lo più per schiacciarle. Per questo motivo si può pure ammettere che non è detto la diffusione dell’approccio privatistico peggiori la situazione rispetto all’ingerenza tuta Statale persino nei metodi, nella burocrazia che va inesorabilemente affermandosi sopra le pratiche mutualistiche qualora queste ambiscano ad essere formalmente riconosciute (e forse anche a prescindere da illusioni legaliste, già per questioni di contabilità, visto l’incedere della mentalità comune a preoccuparsi più dei bilanci che di se stessa). Al contempo è proprio da questa compromissione di obiettivi specifici tra snodo pubblico e sfera privata che si ottiene quella traslazione già accennata da utenza a clientela, così come l’appoggio della Sanità su specifiche aziende farmacologiche ha prodotto un consolidamento della malattia come merce. Arrivata a questo punto, laddove la concezione dell’intervento medico è una questione di concessione esercente tanto da inficiare ormai alla radice persino l’assunto umanistico del giuramento Ippocratico, l’ormai sostanziale assimilazione ad approcci c
apitalistici non può che peggiorare. E ciò con tutte le conseguenze nemmeno così indirette del caso: a partire da un personale della mutua che si ritrova mutilato di alcuni aiuti concreti, tanto nell’organico quanto nel materiale disponibile, e che viene reso pressoché impotente, appunto un servo-meccanismo cui si nega di interfacciarsi e di poter influire sulle modifiche derivanti da mere logiche di appalto, fino al dover subire la precarietà del non poter più disporre più di contratti così rassicuranti, e nonostante la responsabilità richiesta dal tipo di servizio. Il tutto poi ci riporta nuovamente al problema dell‘etica deontologica di chi si occupa di fornire e rielaborare i dati al di là del metodo scientifico-organizzativo, banalmente, perché se non si sta attentx a quello che si lascia trapelare “persino” in quest’ambito lavorativo ci si può ritrovare seriamente sotto ricatto.
Se non vediamo come il neo-liberismo sappia ricreare dinamiche autoritarie, gerarchizzazione dei ruoli e una sorta di gerarchia di stampo mafioso, nonostante sappia venderlo bene, forse non abbiamo davvero colto a fondo come esso si riproduce.. o magari riteniamo non ci riguardi proprio perché siamo esattamente dalla parte di chi riceve o dispensa e revoca privilegi. Non è anacronistico ragionare sul fatto che anche in questo settore le possibilità conflittuali non possono esimersi da una coscienza di classe; sarebbe anzi il primo passo per comprendere meglio a cosa si va incontro e a ripensare piuttosto a come non lasciarcene sovradeterminare.
Attenzione, in questa sottospecie di dissertazione polemica (ma pur sentita fino al midollo), si cercano le problematiche degli scenari in cui si viene immersx: non si sta qui rivolgendo accuse, si vorrebbe semmai analizzare tutti i passaggi possibili che via via ci possano sembrare chiave di svolta, e questo secondo le rispettive sensibilità, una analisi che sia frutto di una pratica quotidiana anche molto personale. Non è detto che sia utile, o condivisibile, ma vuole ribadire l’importanza dell’espressione singolare e di una pluralità di prospettive entro cui ci si interseca. Sarebbe bello si sviluppassero dibattiti aperti a riguardo, risposte che ci aiutano a rimetterci in discussione ed affinare lo sguardo, orientarci per non seguire false chimere ed offrirci possibilità pratiche solidali autonome, soprattutto quando si vive lo stesso inferno burocratico, lavorativo, o ben peggio se ci si ritrova in condizione di essere solo oggettificatx, passivi, come “le utenze” in malattia appunto. Magari per passione o vocazione, si deve scendere a compromessi con il livello di formazione, scelte che indidono su tutto il resto, accontenarsi di ciò che si trova, vedere i propri sforsi finire in tasse che alla fine si sa dove vadano sprecate, doversi barcamenare tra codici legali e penali,.. per vedersi togliere sempre più garanzie. Spesso, per altro, si è trattato di garanzie ottenute grazie a lotte emancipative di portata molto più ampia, poi estrapolate da queste per essere usate come un contentino. Non si sta dicendo che prima fosse meglio. Di nuovo, si vuole consividere spunti per non smettere di ragionare su alcuni schemi di benessere che se lasciati prendere il sopravvento delle nostre vite ci privano dell’esercizio della coscienza, essendo in qualche modo costretto da assetti organizzativi più strutturati che ci si obbliga a seguire.. e questo non lo consideriamo certo salutare, non solo psicologicamente.
>>>>>>>>>>>>>>>>>>
Si diceva assodato che anche essere statalizzati completi comporta che si perda il lavoro se si fa menzione di procedure non così virtuose: un esempio tra innumerevoli che ci si dovrebbe sempre ricordare affinché non si debbano riaccadere, i detenuti assassinati dai pestaggi nel carcere di Sant’Anna a Modena. Si è dovuto aspettare il referto dalla Tunisia di due salme richieiste dalle famiglie (tutte che hanno potuto seppellire i propri cari mica grazie a un risarcimento istituzionale bensì per la costanza di un Comitato di Verità e Giustizia che ha sopperito alle spese grazie ad offerte), per “scoprire” segni evidenti che smentivano la comoda “morte per overdose” che qualunque giornale ha subito accreditato. Nessunx con ruolo sanitario ha osato parlare. E lasciare il beneficio del dubbio che le omissioni, oltre a mancati interventi, sia statx solo paura, è far loro davvero un favore. Le rivolte nei penitenziari di moltissime Nazioni, solo in Italia sono state decine le case circondariali e i CPR in cui sono scoppiate, erano precisamente a seguito dell’allarme Covid. La paura quando si è rinchiusi (o meglio, quando si è coscienti di esserlo), ha questo effetto. Nei penitenziari comuni si chiedevano amnistia e indulto, cosa che avrebbe senso fare anche ora visto che vi è un sovraffollamento che ha superato i numeri del 2020, è che non comporta certo salubrità. Nessuna richiesta è stata accettata quando in paesi come l’Iran sono state liberate migliaia di persone. Se il covid fosse stato pericoloso quanto dicevano, poteva essere una strage tenere le carceri a quel regime. Lo è comunque stata per chi si è ribellato, perché si può contare sul collaborazionismo, l’impunità e l’attribuzione di stigma da parte di troppi. Si attendevano misure di protezione sanitaria e invece di ottenere qualche trattativa ci sono stati trattamenti ed accanimenti punitivi per settimane, chi addirittura subendoli per mesi. Ogni aggiornamento a riguardo è peraltro stato possibile soltanto grazie a contatti solidalx.
Tra gli innumerevoli aggiornamenti a riguardo delle condizioni detentive si suggerisce l’opuscolo “Riflessioni sulla gestione sanitaria all’interno dei CPR”, redatto con particolare riferimento al Centro di Permanenza e Rimpatrio Brunelleschi di Torino, il quale è stato poi distrutto da numerosi atti di rivolta portati avanti contemporaneamente a scioperi della fame individuali o più spesso coordinati per avanzare richieste comuni, che non di rado sono stati protratti per settimane. Più spesso non si arriva nemmeno alla ribellione insurrezionale: l’unica maniera che rimane per protestare è proprio compiere atti di autolesionismo sul proprio corpo.
Come il soggetto criminalizzato viene indicizzato in base a delle azioni particolari, anche un soggetto malato tende a subire ed attribuirsi egli stesso una riduzione quasi ontologica entro i confini della struttura ospedaliera. Ma negando anche solo temporaneamente le proprie abitudini e scelte, e non come fossero elementi isolati bensì soprattutto nel rapporto con quelle circoscritte, si rischia di non considerarne l’origine ed anzi, di non riuscire nemmeno a notare quali organi comportino infermità al resto della società. Ciò che dovrebbe preoccuparci proprio osservando il contesto entro cui una malattia insorge è semmai il drastico aumento di ineguaglianze rispetto alle possibiltà di cura, che in una riformulazione capitalistica è inevitabile si traduca – quando non lo è drammaticamente già diventata – in una ulteriore forma di privilegio. Per altro forse la più estrema, in quanto sarebbe una necessità primaria e terminale insieme, che ci accompagna senza distinzioni. Ecco che invece l’appoggiarsi a garanzie liberali ha reso la medicalizzazione pubblica una misura su cui speculare e da poter revocare all’occorrenza.

La Tecnica, pretende di essere un valore assoluto, al di fuori di ogni partita doppia. Ebbene, mai il ciarlatanismo, il corbellamento del proprio simile, il gabellamento più sfrontato delle menzogne, hanno attinto così alto livello, come in questa epoca in cui siamo “scientificamente” governati. […]

Non vi è potente fregnaccia che la tecnica moderna non sia lì pronta ad avvallare, e rivestire di plastiche verginali, quando ciò ciò risponde alla pressione irresistibile del capitale ed ai suoi sinistri appetiti.”  [ Amedeo Bordiga, da Politica e “costruzione” ]

>>>>>>>>>>>>>>>>>>

<<<<<<<<<<<<<<<<<<

UNA QUESTIONE DI METODO

<<<<<<<<<<<<<<<<<<

Non si sta proponendo, come fosse una questione di mera coalizione pseudo-oppositiva, di doversi limitare alla polemica allarmistica; tantomeno non si vuole suggerire di aggrapparsi al pregiudizio ideologico, magari finendo a conclusioni affrettate dietro cui si nascondono soltanto ennesime strumentalizzazioni dell’idea tutta totalitaria per cui la popolazione vada trattata come un gregge in quanto inevitabilmente ignorante. Non si tratta di doverci indottrinare, e non è un mero appiglio teoretico che si prova a reclamare. Ciò che si cerca di non far morire del tutto in quanto unico vero orientamento possibile è semmai il carattere delle nostre interazioni umane, la loro vitalità stessa, il tenersi in contatto, il non abbandonarsi a chi ci trascina solo per usarci. E non invece un trascinare a sé per usare! Quando non si può essere schiettx, significa che non si è liberx di esprimersi, ed alla lunga nemmeno di provare emozioni. Perciò l’appello che si può lanciare è di non demordere, non accontentarsi ma anche sforzarsi / darsi forza. Capire cosa vogliamo. Porsi vicendevolmente interrogativi su cosa quotidianamente possiamo anticipare ed evitare rispetto a concertazioni governative che avranno conseguenze su intere generazioni a venire. Per non arrivare impreparatx come è già avvenuto durante la pandemia, ma anche a prescindere da qualsiasi incombenza nefasta. Forse proprio perché questo tipo di vissuto, più caotico ma anche più ricco di scambio, è già un ingrediente che ci sembra fondamentale, di quelli che ci fanno sentire un po’ meglio, genuino perché non ha bisogno di troppe indicazioni, anzi lievita soprattutto spontaneamente. Perché in linea di massima, nel dichiararsi contro ogni autorità non è affatto un programma a rendere quale sia il nostro stato di cura reciproca, ma la capacità tutta da allenare di non finire riprodurre forme dolorose di isolamento, darsi coraggio e ritrovare motivazioni al non rinunciare, magari proprio ripensando il nostro modo di stare insieme.. dietro a questi schermi ce lo chiediamo spesso, e di fronte alla repressione, come possa continuare ad essere possibile senza doversi nascondere.

Apprendere a discutere di ciò che accade nei nostri ambienti di lavoro così come delle esperienze da “utenza” è ciò che ci auspichiamo affinché si possano poi creare gruppi mutualistici e alternative valide a ciò che il sistema capitalistico nonostante tutte le sue promesse sta dimostrando di non poter offrire. Il benessere psicofisico è qualcosa che spesso diamo per assodato, vista la varietà di proposte di cui disponiamo oggi. Eppure l’insofferenza verso questo esubero, il costante senso di inadeguatezza, l’inquietudine per il disorientamento che produce, finanche il rigetto di moltissimx nei confronti della sensazione di doversi omologare a questa corsa al “di più”, sono solo alcuni degli effetti collaterali di un procedere consumistico che fallisce in fondo le sue promesse. Mentre in certe parti del globo vengono bombardatx interi territori attraverso armi fabbricate nei nostri paesi, qui si bombardano costantemente gli animali d’allevamento con antibiotici e farmaci sperimentali per trattenere ennesime fuoriuscite pandemiche, e noi stessx per sostenere stili di vita alientanti ci lasciamo bombardare con offerte commerciali d’ogni tipo per continuare a giustificare le conseguenze nefaste della nostra organizzazione sociale, fino a vendere non solo sostanze farmacologiche ma le stesse apparecchiature tecnologiche come fossero panacea, ritrovati miracolosi, seppur sia assodato che non fanno che aumentare scompensi relazionali e che sostenere la loro produzione secondo le attuali forme imprenditoriali comporti avvallare l’avanzamento di catastrofi ambientali e dello sfruttamento, per altro ancora razzializzato. Tutte queste false soluzioni, apparentemente disgiunte tra loro, dipendono in ultima analisi da calcoli d’investimento che di fatto decretano il destino di intere popolazioni. Pensando a tutte queste compromissioni, di quali e quante illusioni e distrazioni cui siamo abituatx dobbiamo arrivare a poterci liberare per riuscire a rivolgerci la domanda “di cosa ho davvero bisogno?”

>>>>>>>>>>>>>>>>>

Per fare un parallelo di metodo, un passaggio dello sviluppo scientifico che ha permesso di salvare vite anziché di impadronirsene è proprio l’osservazione eziologica, sulle cause. E non possiamo non ricordare che le stesse lotte emancipative tentino di base di svelare e combattere proprio le cause delle ingiustizie (ovviamente con tutte le diffoltà dirette in cui si imbattono), caso per caso. La pretesa di universalità o, all’inverso, l’attenzione al più piccolo particolare, sono comunque due poli complementari: portano ognunx in sé possibilità emancipative ma anche tante contraddizioni, oltre al contraddirsi tra loro quando cadono nella pretesa di unicità. L’equilibro tra di essi è spesso precario, ma ricercarlo anziché eliminare ciò che contraddice un assunto non farebbe che aumentare il grado di esperienza.. La ricerca di un sensato (o anche, sano) equilibrio tra le contraddizioni io-mondo e soggetto-oggetto comporta proprio evitare che uno dei due poli schiacchi od elimini la portata dell’altro, non solo per mera funzione di rispecchiamento nell’altro-da-sé, ma per tutto ciò da cui l’altro-da-sé deriva, e che nel rapporto con esso ci trova coinvolti a scegliere di considerare o meno. Questo si ricollega al paragrafo iniziale rispetto alla non-neutralità di ogni posizione, almeno in prospettiva relazionale: persino chi si ritiene ormai illusoriamente lontano da un certo ordinamento sociale può subirne comunque alcuni effetti, ma anche agirvi, allo stesso modo dei vertici che dirottano le masse, ma nondimeno è possibile il contrario! Ciò significa che non si può né obiettivamente né soggettivamente rinunciare ad un movimento dialettco tra questi sguardi, il generico ed il singolare. Il che può essere spiegato o contestato da varie filosofie e civiltà, le quali spesso hanno assunto declinazioni ragionate a riguardo ma che finivano per amplificarne l’una o l’altra polarità, mentre una focalizzazione biunivoca è forse proprio ciò che ci permette di reinventarci e non doverci per forza accontentare degli schemi esistenziali fissi che si viene ad ereditare. Un segnale che qualcosa vada cambiato è proprio quando si prova malessere: proprio questo ci spinge, per andare incontro invece a forme più autonome dello stare bene, che studino le maniere di autovalutarsi ed autodeterminarsi, o magari non studiano proprio un bel niente nel senso classico e formale eppure come metodo contemplano la trasmissione non gerarchica di conoscenze, condividendo i propri rimedi.. mica aspettando gli standard globalisti (manco per farsi un’idea, figuriamoci nella pratica)!

Quindi, cercando in prospettiva del G7 di capire cosa attende le collettività (perché di questo si tratta, purtroppo, mica di una conferenza su come sconfiggere il cancro..), se riscontrassimo, come secondo la logica prima accennata, che molte cause del nostro malessere sono proprio là fuori, mentre ciò che proviamo “internamente” si rivelassero solo effetti, ripercussioni sulla nostra stessa salute, e che questi finiscono per accumularsi più che altro per il modo in cui non riusciamo concretamente ad affrontare il nostro contesto esperienziale, si ritiene davvero che le nostre sensazioni siano da eludere banalmente aggiungendo della serotonina o correndo a farci diagnosticare qualche deficit? Non si sta qui negando che qualunque intervento ognunx veda appropriato al proprio intimo percorso possa avere un risultato obiettivo rispetto a ciò che si soffre. Si sta però ponendo la questione interrogandosi sulle misure massive, disposizioni che predeterminano i percorsi personali, anche solo come elemento culturalmente normalizzato, senza che vi sia una chiara costrizione in atto, ma che influisce sulle nostre possibilità decisionali.

Le contro-culture, ciò che difendiamo, non mancano di valorizzare l’uso di sostanze psicotrope, calmanti, acceleranti, spazio-temporalmente dissociative, e via libera sperimentando. Qui l’obiettivo non è certo contestare un determinato uso, anche qualora fosse placebo, e nemmeno il senso generale di una prescrizione medica; soprattutto, non si vuole ferire chi tenta così di non farsi abbattere da eventuali patologie. Ma si vuole fermamente capire se possiamo darci un qualche sostegno per preverirle, cominciando a non farci portatori delle loro stesse cause, e ciò sempre seguendo la logica di molte lotte emancipative, tante delle quali hanno aperto spiragli di libertà alle successive generazioni. Come si potrebbe superare la dimensione placebo senza concepire momenti di autocricrica? Eluderla comporta per prima cosa una relazione superficiale con altre persone ed il mondo stesso. Se guardiamo alle prospettive più catastrofiche sistematicamente proposteci, tanto l’autocritica che la critica vengono concepite come piuttosto inconcepibili da farsi pubblicamente, se non nell’assetto dei talk show.. ma riguardo alle possibilità di dibattito, più descrittivo che gli applasi a pagamento rimane semmai l’intervento della celere nelle strade, tant’è che un assetto autoritario è riconoscibile proprio laddove la variiabile critica venga meno. Magari anche lentamente, ma troppo spesso fino alla totale eliminazione di un contraddittorio, spesso in nome di qualche sicurezza fantomaticamente raggiunta. E ciò si rifletta tenendo sempre conto che nessunx è del tuttx immune, come nessunx è davvero innocente.

Non sarà che al solito dovremmo allora concentrarci sul fatto che tra potenze occidentali si senta ancora legittimo coordinarsi su come rendere le possibilità di diagnosi e cura un ulteriore strumento di ricatto sociale, persino senza che ciò desti troppe preoccupazioni? Non perché dovremmo avere contributi scientifici da portare o contrastare laddove non si conoscono nemmeno i brevetti, ma banalmente perché i piani degli amministratori ed i loro indirizzi collaborativi sono purtroppo sempre molto più lineari e già esplicitamente tracciati (si vedano le proposte del PNRR) di quello che giocano a mostrare attraverso le loro liste di rappresentanza.

Non si sta proponendo, come fosse una questione di mera coalizione pseudo-oppositiva, di doversi limitare ad allarmarsi e non si suggerisce tantomeno di aggrapparsi al pregiudizio ideologico, magari finendo a conclusioni affrettate dietro cui si nascondono soltanto ennesime strumentalizzazioni popolari. Non è questo che si prova a reclamare. Ciò che si cerca di non far morire del tutto è semmai il tenersi in contatto, non abbandonarsi a chi ci trascina solo per usarci. E non un trascinare per usare! Quando non si può essere schiettx, significa che non si è liberx di esprimersi, ed alla lunga nemmeno di provare emozioni. Perciò l’appello che si può lanciare è di non demordere, non accontentarsi ma anche sforzarsi / darsi forza. Di capire cosa vogliamo. Porsi vicendevolmente interrogativi su cosa quotidianamente possiamo anticipare ed evitare rispetto a concertazioni governative che avranno conseguenze su intere generazioni a venire. Per non arrivare impreparatx come è già avvenuto durante la pandemia, ma anche a prescindere da qualsiasi incombenza nefasta. Forse proprio perché questo tipo di vissuto, più caotico ma anche più ricco di scambio, è già un ingrediente che ci sembra fondamentale, di quelli che ci fanno sentire un po’ meglio, genuino perché non ha bisogno di troppe indicazioni, anzi lievita soprattutto spontaneamente. Perché in linea di massima, nel dichiararsi contro ogni autorità non è affatto un programma a rendere quale sia il nostro stato di cura reciproca, ma la capacità tutta da allenare di non finire riprodurre forme dolorose di isolamento, darsi coraggio e ritrovare motivazioni al non rinunciare, magari proprio ripensando il nostro modo di stare insieme.. dietro a questi schermi ce lo chiediamo spesso, come possa continuare ad essere possibile senza doversi nascondere.

Apprendere a discutere di ciò che accade nei nostri ambienti di lavoro così come delle esperienze da “utenza” è ciò che ci auspichiamo affinché si possano poi creare gruppi mutualistici e alternative valide a ciò che il sistema capitalistico nonostante tutte le sue promesse sta dimostrando di non poter offrire. Il benessere psicofisico è qualcosa che spesso diamo per assodato, vista la varietà di proposte di cui disponiamo oggi. Eppure l’insofferenza verso questo esubero, il costante senso di inadeguatezza, l’inquietudine per il disorientamento che produce, finanche il rigetto di moltissimx nei confronti della sensazione di doversi omologare a questa corsa al “di più”, sono solo alcuni degli effetti collaterali di un procedere consumistico che fallisce in fondo le sue promesse. Mentre in certe parti del globo vengono bombardatx interi territori, qui si bombardano costantemente gli animali d’allevamento per evitare ennesime fuoriuscite pandemiche e ci bombardiamo da solx di ultime offerte commerciali d’ogni tipo, tutte che volenti o nolenti in ultima analisi dipendono dai calcoli d’investimento che vanno a decretano il destino di intere popolazioni.

Pensando a tutte queste compromissioni, di quali e quante illusioni e distrazioni cui siamo abituatx dobbiamo arrivare a poterci liberare per riuscire a rivolgerci la domanda “di cosa ho davvero bisogno?”

Per fare un parallelo di metodo, un passaggio dello sviluppo scientifico che ha permesso di salvare vite anziché di impadronirsene è proprio l’osservazione eziologica, sulle cause. E non possiamo non ricordare che le stesse lotte emancipative tentino di base di svelare e combattere proprio le cause delle ingiustizie (ovviamente con tutte le diffoltà dirette in cui si imbattono), caso per caso. La pretesa di universalità o, all’inverso, l’attenzione al più piccolo particolare, sono comunque due poli complementari: portano ognunx in sé possibilità emancipative ma anche tante contraddizioni, oltre al contraddirsi tra loro quando cadono nella pretesa di unicità. L’equilibro tra di essi è spesso precario, ma ricercarlo anziché eliminare ciò che contraddice un assunto non farebbe che aumentare il grado di esperienza.. La ricerca di un sensato (o anche, sano) equilibrio tra le contraddizioni io-mondo e soggetto-oggetto comporta proprio evitare che uno dei due poli schiacchi od elimini la portata dell’altro, non solo per mera funzione di rispecchiamento nell’altro-da-sé, ma per tutto ciò da cui l’altro-da-sé deriva, e che nel rapporto con esso ci trova coinvolti a scegliere di considerare o meno. Questo si ricollega al paragrafo iniziale rispetto alla non-neutralità di ogni posizione, almeno in prospettiva relazionale: persino chi si ritiene ormai illusoriamente lontano da un certo ordinamento sociale può subirne comunque alcuni effetti, ma anche agirvi, allo stesso modo dei vertici che dirottano le masse, ma nondimeno è possibile il contrario! Ciò significa che non si può né obiettivamente né soggettivamente rinunciare ad un movimento dialettco tra questi sguardi, il generico ed il singolare. Il che può essere spiegato o contestato da varie filosofie e civiltà, le quali spesso hanno assunto declinazioni ragionate a riguardo ma che finivano per amplificarne l’una o l’altra polarità, mentre una focalizzazione biunivoca è forse proprio ciò che ci permette di reinventarci e non doverci per forza accontentare degli schemi esistenziali fissi che si viene ad ereditare. Un segnale che qualcosa vada cambiato è proprio quando si prova malessere: proprio questo ci spinge, per andare incontro invece a forme più autonome dello stare bene, che studino le maniere di autovalutarsi ed autodeterminarsi, o magari non studiano proprio un bel niente nel senso classico e formale eppure come metodo contemplano la trasmissione non gerarchica di conoscenze, condividendo i propri rimedi.. mica aspettando gli standard globalisti per farsi un’idea, figuriamoci nella pratica!

Quindi, cercando in prospettiva del G7 di capire cosa attende le collettività (perché di questo si tratta, purtroppo, mica di una conferenza su come sconfiggere il cancro..), se riscontrassimo, come secondo la logica prima accennata, che molte cause del nostro malessere sono proprio là fuori, mentre ciò che proviamo “internamente” si rivelassero solo effetti, ripercussioni sulla nostra stessa salute, e che questi finiscono per accumularsi più che altro per il modo in cui non riusciamo concretamente ad affrontare il nostro contesto esperienziale, si ritiene davvero che le nostre sensazioni siano da eludere banalmente aggiungendo della serotonina o correndo a farci diagnosticare qualche deficit? Non si sta qui negando che qualunque intervento ognunx veda appropriato al proprio intimo percorso possa avere un risultato obiettivo rispetto a ciò che si soffre. Si sta però ponendo la questione interrogandosi sulle misure massive, disposizioni che predeterminano i percorsi personali, anche solo come elemento culturalmente normalizzato, senza che vi sia una chiara costrizione in atto, ma che influisce sulle nostre possibilità decisionali.

Le contro-culture, ciò che difendiamo, non mancano di valorizzare l’uso di sostanze psicotrope, calmanti, acceleranti, spazio-temporalmente dissociative, e via libera sperimentando. Qui l’obiettivo non è certo contestare un determinato uso, anche qualora fosse placebo, e nemmeno il senso generale di una prescrizione medica; soprattutto, non si vuole ferire chi tenta così di non farsi abbattere da eventuali patologie. Ma si vuole fermamente capire se possiamo darci un qualche sostegno per preverirle, cominciando a non farci portatori delle loro stesse cause, e ciò sempre seguendo la logica di molte lotte emancipative, tante delle quali hanno aperto spiragli di libertà alle successive generazioni. Come si potrebbe superare la dimensione placebo senza concepire momenti di autocricrica? Eluderla comporta per prima cosa una relazione superficiale con altre persone ed il mondo stesso. Se guardiamo alle prospettive più catastrofiche sistematicamente proposteci, tanto l’autocritica che la critica vengono concepite come piuttosto inconcepibili da farsi pubblicamente, se non nell’assetto dei talk show.. ma riguardo alle possibilità di dibattito, più descrittivo che gli applasi a pagamento rimane semmai l’intervento della celere nelle strade, tant’è che un assetto autoritario è riconoscibile proprio laddove la variiabile critica venga meno. Magari anche lentamente, ma troppo spesso fino alla totale eliminazione di un contraddittorio, spesso in nome di qualche sicurezza fantomaticamente raggiunta. E ciò si rifletta tenendo sempre conto che nessunx è del tuttx immune, come nessunx è davvero innocente.

Non sarà che al solito dovremmo allora concentrarci sul fatto che tra potenze occidentali si senta ancora legittimo coordinarsi su come rendere le possibilità di diagnosi e cura un ulteriore strumento di ricatto sociale, persino senza che ciò desti troppe preoccupazioni? Non perché dovremmo avere contributi scientifici da portare o contrastare laddove non si conoscono nemmeno i brevetti, ma banalmente perché i piani degli amministratori ed i loro indirizzi collaborativi sono purtroppo sempre molto più lineari e già esplicitamente tracciati (si vedano le proposte del PNRR) di quello che giocano a mostrare attraverso le loro liste di rappresentanza.

 

<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<

Di nuovo, come nel precedente post a riguardo, prendiamo in prestito le parole di un compagno marchigiano (cf. articolo pubblicato su Malamente proprio per lanciare una serie di contro-eventi in dissenso al G7) il quale ci indica in buona sintesi quali temi verranno messi sul tavolo dei diplomatici:

RACCOLTA LA MATASSA, I NODI DEL G7 AL PETTINE

 

Dietro le quinte. Nello specifico dell’agenda dell’incontro di Ancona, studiando i documenti ufficiali emergono tre temi fondamentali:

 

a) IL TEMA DEI VACCINI E DELL’ACCESSO AI FARMACI

Nel G7 sono rappresentati i principali paesi che si oppongono all’eliminazione dei brevetti sui vaccini e sui farmaci. A livello globale la lotta per l’“apertura” dei brevetti sui vaccini e sui farmaci ha rappresentato per decenni una delle rivendicazioni esemplari dello squilibrio Nord/Sud nella globalizzazione neoliberale. Durante il G8 a Genova, nel 2001, l’allora portavoce del Genoa social forum Vittorio Agnoletto, fu una delle figure più mediatizzate e che tutti ricordano, ma al suo fianco c’erano numerosi attivisti e attiviste meno noti del cosiddetto Sud globale, che ponevano la questione della proprietà intellettuale sui brevetti come centrale nella nuova dinamica di sfruttamento capitalista che aveva sostituito il vecchio colonialismo di occupazione. La pandemia Covid-19 ha esacerbato delle contraddizioni già profonde, portando anche in Occidente il conflitto legato alla vaccinazione. Oggi ricordiamo i dibattiti infuocati sulla validità e l’opportunità o meno delle vaccinazioni e sappiamo che sicuramente attorno alla pandemia sono prosperati gli imprenditori politici della paura e del controllo, ma forse scordiamo troppo facilmente quanto l’iniziale scarsità dei vaccini avesse prodotto fenomeni di accaparramento, corruzione, speculazione. Alcune persone arrivarono a pagare fino a 10.000 euro per vaccinarsi privatamente, altre fecero carte false per ottenere vaccini a cui non avevano (ancora) diritto. Nelle nostre società abituate a un livello elevato di prestazioni e di consumi in ambito sanitario, abbiamo poca consapevolezza delle tensioni e delle sofferenze provocate dalla mancanza di farmaci, vaccini e cure mediche in situazioni di bisogno e di urgenza. Qual è la proposta a cui lavora il G7? Costruire fabbriche di vaccini private, mantenendo i profitti legati ai brevetti, nei paesi poveri per soddisfare la loro richiesta di vaccini e farmaci facendo ripagare i prestiti finanziari, secondo un’ottica pienamente liberista, alle stesse società che vengono già sfruttate dall’economia neocoloniale.

b)  PPR: PREVENTION, PREPAREDNESS, RESPONSE

A giugno 2024 a Ginevra è stato discusso e approvato un documento avanzato verso la stipulazione di nuove regole globali per la risposta alle pandemie, sotto forma di emendamenti al trattato dell’OMS International Health Regulations del 2005. Le principali innovazioni sono una definizione univoca di emergenza pandemica e dei sistemi di allarme e di risposta condivisi, la creazione di Autorità nazionali preposte alle regolazioni sanitarie e un meccanismo finanziario coordinato per attivare trasferimenti di fondi di emergenza per fare fronte alle difficoltà economiche dei paesi più poveri o in maggiore difficoltà finanziaria. Tutti questi approcci globali e umanitari si scontrano però con le contraddizioni di fondo che vedono i governi del G7 come parte in causa, in quanto difendono gli interessi di alcune delle maggiori case farmaceutiche globali e utilizzano coscientemente il potere medico e sanitario come strumento di pressione geopolitica. Per questo motivo la vecchia ma sempre attuale rivendicazione dell’eliminazione del brevetto dai farmaci salvavita e dai vaccini è fondamentale per ristabilire delle condizioni basilari di equità e di sicurezza sanitaria.

c) STUPEFACENTI E REPRESSIONE

L’approccio del G7 nel campo degli stupefacenti è costantemente improntato alla repressione e alla criminalizzazione, nonostante nel mondo stiano costantemente crescendo le evidenze scientifiche della validità della legalizzazione e della depenalizzazione. Nelle Marche abbiamo avuto un tragico assaggio del connubio patologico tra proibizionismo e repressione psichiatrica nel caso del giovane Matteo Concetti, morto suicida nel carcere di Montacuto a gennaio 2024. Del suo caso abbiamo parlato nel numero 32 (marzo 2024) e abbiamo sostenuto la richiesta, ancora attuale, di dimissioni per incompetenza del Garante dei detenuti, Giancarlo Giulianelli. Nelle Marche poi non dobbiamo dimenticare l’ingombrante presenza di uno dei capi politici di Fratelli d’Italia, lo psichiatra Carlo Ciccioli, oggi eurodeputato, che già nel 2012 provò a minare dalle fondamenta la legge Basaglia, senza riuscirci, ma che oggi continua a promuovere una cultura tradizionalista, paternalista e autoritaria applicata alla salute mentale.

Nel carcere e nelle strutture di contenzione psichiatrica il legame problematico e mortifero tra repressione e droghe accelera e si intensifica, ma presenta la stessa grammatica sghemba che troviamo nelle strade. Il consumatore di sostanze viene sfruttato dalla criminalità e diventa bersaglio della polizia che cerca di aumentare la propria produttività penale con una fonte praticamente inesauribile di illegalità. Negli ultimi tempi il movimento antiproibizionista in Italia ha subito numerosi contraccolpi e negli anni è molto arretrato, spesso delegando ad attivisti in cerca di visibilità improbabili campagne mediatiche. Sul terreno oggi sono rimasti operatori e operatrici sanitari di base che difendono i diritti delle persone tossicodipendenti nella pratica quotidiana, con enormi limiti e problemi.

…”

 

Quest’ultimo punto ci tocca in larga parte. Comprendere come il Sistema sanitario operi sinergicamente a quello carcerario è di cruciale importanza in ottica di autodifesa e per mantenere un approccio emancipativo anziché lasciare che siano gli istituti preventiti e punitivi ad occuparsene e definire il nostro stato di bisogno psicologico. Il rischio è quello che si vengano a determinae standard sempre più disciplinari, socialemente accettati così come i metodi sedativi e dissociativi sia volontari che coatti, i quali sono ampiamente abusati in carcere e nei CPR. In particolar modo per evitare le proteste, a corredo degli interventi da squadretta, da tempo la somministrazione di psicofarmaci costituisce una vera e propria norma disciplinare, anche quando non pubblicamente dichiarata. L’aspetto più drammatico è che spesso non si tiene conto della storia individuale: per la grande maggioranza della popolazione carceraria la reclusione è assegnata per reati minori, ma il contesto di difficoltà materiale e di traumi in precedenti esperienze non solo non vengono considerate, bensì comportano un ulteriore perseguibilità in attraverso schedature sommarie sotto la categoria di soggetti emotivamente instabili o socialmente pericolosi. La costruzione della fedina attraverso simili diagnosi è quanto di più lontano dalle lotte che sono state fatte per la stessa chiusura dei manicomi e degli OPG. Se si aggiunge poi che da almeno un decenno ben un terzo dex detenutx con problemi di dipendenze è sprovvistx di cittadinanza italiana si può cogliere che il discrimine razziale, che spesso non fa che coprire quello classista, serve soltanto alla propaganda securitaria ed alle grandi mafie stesse, oltre al fatto che gli abusi su persone che hanno meno facilità di trovare una rete di solidarietà interna ed esterna le mura, e la cui famiglia o si trova distante o non ha le possibilità di avanzare richieste in aiuto delx proprix carx.

Per abusi intendiano appunto anche quelli medicalizzanti, ossia quelli che non esitano a condizionare ed annichilire la volontà di detenutx e “utenze” di vario grado. Facendo a pieno titolo parte del Sistema riabilitativo, degli esiti nefasti non vi è praticamente letteratura pubblica se non le testimonianze dex singolx e la diffusione di queste da parte di coloro che ancora non si lasciano abbindolare dalle retoriche stigmatizzanti e mostrifcanti tenendo presente i contesti di marginalizzazione da cui la violenza scaturisce e nei quali le dipendenze e la tendenza “a delinquere” sono spesso una conseguenza di problemi collettivamente non risolti, non tanto l’origine: in questo senso prospettive abolizioniste, dei penitenziari così come in passato dei manicomi, non negano la gravità di alcuni comportamenti, ma pongono il problema dell’inutilità abbastanza conclamata del modello punitivo e della sua ragione strumentale, che allontana dalle possibltà di investire le energie in altri approcci, più attenti ai bisogni concreti e meno tribunaleschi, valorizzando le strade di una giustizia che sorga dal basso.  tenta di capire cosa renda insalubri le nostre vite, renda tossicx noi stessx, e invece che dare la colpa al drogarsi si ritorna ad ogni ragionamento alla questione economico-organizzativa. Se state pensando che siamo di parte, torniamo a vedere a cosa stiamo andando incontro, e perciò contro cui ci si pone: l’intero complesso economico non è altro che un sistema di dipendenze a cui si sopperisce con altre dipendenze. il fatto che siano meno riconoscibili di pestaggi e condizioni paragonabili alla torura, come le varie prassi di condanna all’isolamento, non può considerarsi un caso che stia venendo incentivata sempre più la collaborazione tra gli apparati dirigenziali e le lobbies farmaceutiche nelle politche di controllo sociale, capillarmente, fino ad integrare la formazione dex insegnanti delle strutture anche primarie. Risalendo allora dalle contraddizioni insite nel disciplinamento scolastico fino al connubio repressivo applicato da guardie ed operatori sanitarie insieme in virtù del rispetto di ruoli e protocolli, si può concludere che, benché l’avere premura dei vissuti personali sarebbe appunto l’unico baluardo riabilitativo sostenibile, liberandosi finalmente dall’aut aut tra privilegio ed oppressione, dopo secoli di insediamento di logiche di dominio si preferisce relegare quelle di cura delle relazioni, nonché quindi focalizzandosi su una ricerca costante di armonia tra le dimensioni individuali e quelle collettive, a qualcosa di “utopistico”. Eppure, questo approccio è stato e continua a venir praticato in molti versi attraverso situazioni più o meno comunitarie (*) cercando di confrontarsi su ciò che viene recepito come atteggiamento che nuoce, anche “solo” secondo una percezione minoritaria (o nondimeno, “soprattutto”!), per crescere nella consapevolezza ed evitare di dover arrivare a reprimere istinti e categorie intere di persone, cosa che allo stato attuale è ancora molto complicato non per l’illusorietà di questo aproccio ma per via di una cultura sedimentatasi sull’aut aut tra privilegio ed oppressione. Anziché pensare di rifuggire la sofferenza, si desidera piuttosto maturarla. Questo è facilitamo in ambienti che permettono la condivisione di pratiche autonome anziché la riproposizione di un modello che non ci rende nessun tipo di benessere reale, se non qualche surrogato di stabilità. Ma l’impedimento non sta tanto nei surrogati cui si cede: non si considerino solo le sostanze o le ricette mediche, può essere anche un lavoro sotto padrone, una convenzione famigliare in cui sentiamo di non poter essere noi stessx, etc.. Anche queste sono scelte indotte, qualcosa che ci allontana da sé e che può sfociare in ennesime compensazioni o crisi. Pensiamo anche solo a quanto conti avere delle amicizie intorno a sé, una base abitativa senza addebito, non veder distruggere i territori in cui si avrebbero invece progetti comuni. Se pensiamo che molti profughx di guerra finiscono perseguitatx dalle decisioni ministeriali “nostrane”, diviente evidente che i dettami di salvaguardia e sicurezza calati dall’alto si intrecciano fortemente a quello di salute (minandola alla base non solo dal nostro punto di vista, ma nella formalizzazione stessa delle carte dei diritti.

E’ chiaro che per la forma Stato-Capitale tale ideale di superamento del crimine potrebbe non costituirebbe affatto un buon affare.

Per approfondire come si stia sviluppando il legame tra stupefanti e farmaci si può suggerire il podcast appena trasmesso a riguardo per Ricongiunzioni, rubrica di Radio BlackOut e che si occupa di espropriazione e riappropriazione intorno a tendenze e pieghe assunte dalla medicalizzazione (nonché alle piaghe in termini di salute ossia agli effetti collaterali dell’organizzazione in una dimensione capitalistica della cura nonostante i progressi millantati, i quali sono stati in realtà più che decretati a tavolino dovuti semmai da lotte tanto precedenti e propedeutiche quanto internamente conflittuali al welfare). In particolare, rigettiamo le maniere spersonalizzanti, con la pretesa di poter classificare come patologie una complessità di stati emotivi che sono invece spesso campanelli d’allarme di difficoltà che ben oltre gli effetti psicofisici si possono spiegare rispetto a contesti relazionali poco maturi in senso di autogestione collettiva, dove spesso alcune pretese economico-politiche e mancanza di dialogo e di obiettivi comuni tale per cui si ricade non di rado in compensazioni quali l’abuso di stupefacenti, che danno ulteriormente luogo a incomprensioni e rapporti disfunzionali e finiscono con l’essere trattati come causa del problema quando anzi rappresentano spesso tentativi disperati di facile risoluzione. Tutto questo è evidente non appena usciamo dalle pretese di performatività che socialmente ci vengono richeiste, e dai corrispettivi ruoli ricoperti, e ci si apre a cercare di capire la dimensione politica in cui interagiamo. Come l’anamnesi in medicina, così il materialismo storico per i nostri legami organizzativi. Basterebbe davvero qualche sforzo dialettico per evitare molte discussioni personalistiche che invero ricacciano le individualità nel proprio orgoglio ferito e spingono i gruppi a disorientarsi rinunciando alla ricerca del vero e del giusto, e quindi anche del “sano”, poiché tutto l’esperibile diventa tristemente una questione di coalizione e di capacitù dell’individuo. Anziché di riconoscersi in comuni percorsi emancipativi si lascia dilagare ed infiltrare anche in ambito libertario concetti liberali di realizzazione, come l’ipocrisia meritocratica che non guarda mai alle possibilità originarie delle soggettività, solo al loro potere acquisito, o ancor peggio, ereditato. Ed è proprio su questa linea che si continuano ad applicare protocolli sanitari in cui è facile rintracciare una matrice positivista che li tiene ancora oggi legati ad un concetto giurisprudenziale di devianza. Questo sincretismo ideologico è talmente funzionale alla gestione dell’ordine pubblico che per consuetudine non si contesta, si lascia che venga indotto, fino ad arrivare a privare le singole soggettività – così ridotte a utenza clinica – di una propria una autonomia decisionale.

É fondamentale capire come la violenza repressiva cui ci sottopongono non viene certo esercitata soltanto attraverso le fdo.

 

<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<

Dal momento che la questione “salute”, valutata genericamente, arriva a toccare veramente qualsiasi ambito, cosa pensiamo sia prioritario?

QUALCHE CONCLUSIONE..  PER USCIRE DA QUESTA MORSA

 

Per questi motivi vorremmo non dover finire a trascurare né i momenti di confronto né di sperimentarci in tutte le forme di supporto tra esseri viventi in cui possiamo riconoscerci non solo come oggetto ricettivo ma puntando ad una rielaborazione delle proprie esperienze. Ovviamente auspicando che essa sia praticabile con meno mediazioni/ricoveri possibili: ricordiamoci degli incessanti tentativi di non lasciar delegare ad istituzioni totali un senso proprio della cura, ne gioviamo davvero tuttx! Persino l’organizzarsi insieme trova forza nella capacità di “anamnesi” delle lotte reciproche..

L’approccio che rivendichiamo, uscendo da mere analisi sistemiche (ed evitare di farsi demoralizzare definitivamente da previsioni angoscianti) non richiede in fondo grandi sforzi o competenze bensì un terreno comune del lasciare attivamente spazio alla sensibilità, al non essere giudicanti rispetto a percorsi personali, al trovare canali di espressione per le proprie sofferenze, al dare una spalla ad affrontare alcune debolezze, all’empatia.

Certo non sembra affatto facile dare concretezza a quest’approccio e forse appare quasi ipocrita sognarlo, ma non sarà perché viviamo in una società in cui la salute è trattata come una merce ed al contempo non raggiungibile per chi non abbia specializzazione? E non si nota che le relazioni stesse raramente risultano sane in sé, bensì più spesso seguono meccaniche dissociative, ossia maschere e compromessi che danno luogo a scompensi.. ed a conseguenti false soluzioni a catena?

Non ci fa invece sentire già meglio pensare a cosa conta per noi, ben prima e ampiamente al di là del progresso occidentalista entro cui vengono dirottate le nostre vite?

 

I temi che i governanti pianificano sulle nostre teste più che avere a che fare con la cura non riguardano forse una necessità di mantenere produttive le industrie e in miseria le aree che si possono ancora spremere? Non ci si chiede perché non si smette di rifornire armi, sterminare popolazioni non vendutesi, distruggere interi ecosistemi? E non si tiene conto forse che le emergenze sanitarie sono alimentate proprio nel versante coloniale, attraverso sfruttamento animale e tramite esposizione a scarti inquinanti? Quali malattie ci colpiscono davvero? Ed a confronto, come ci sembra si stia orientando il welfare sanitario, o quel che ne resta?  Chi lavora nel settore ha forse voce in capitolo? E chi riceve li trattamenti??

Sono solo alcune delle rilfessioni per cui non sembra affatto niente infantile -al contrario!-  osare pensare di potersi ridefinire, di puntare a decentralizzare i finanziamenti, autonomizzare le prassi medicali, di prenderci la responsabilità noi stessx, scegliere liberamente come coinvolgerci nel mondo.

 

Our minds, our critics ..
My body, my choiche!